Roma - «Pur essendo arrivati primi, non abbiamo vinto». La frase famosa pronunciata da Pierluigi Bersani in un mesto e freddo pomeriggio del 26 febbraio 2013, oggi potrebbe essere trasferita pari pari sulle labbra del premier spagnolo uscente Mariano Rajoy.
Madrid, dopo le elezioni, si risveglia nella Roma del 2013 e lo confessa con stupefatto allarme, mentre la Borsa crolla davanti all'incertezza sul futuro. È uno «scenario italiano», scrive il Pais: «Dovremo abituarci a cose che finora abbiamo visto in televisione a Roma: dalle consultazioni tra il capo dello Stato e i partiti, alla repentina importanza di minuscole formazioni». Per ABC, la Spagna «è entrata in un preoccupante processo di italianizzazione». Fa eco La Vanguardia: «Siamo ora una Italia senza italiani».Sulla carta, le analogie con le nostre ultime elezioni sono impressionanti: nessun partito ha la maggioranza necessaria a governare, le prime tre forze politiche restano tutte sotto al 30%, la quarta poco sopra il 10. Ora il pallino della crisi è nelle mani del Re, che deve dare l'incarico, e che non è un politico esperto come Napolitano ma un giovane Felipe alla prima prova politica. Bersani impiegò una lunga settimana di trattative nel tentativo di evitare le larghe intese con Berlusconi per provare a formare quel «governo del cambiamento» che avrebbe dovuto reggersi sull'appoggio dei grillini. Rajoy, se non altro, si risparmierà l'agghiacciante show dell'incontro in streaming con i due improbabili capigruppo pentastellati, visto che ad intavolare una trattativa con i populisti di Podemos non ci pensa di certo. Il segretario Pd non riuscì nell'intento, come si ricorda, e passò il testimone al suo vice Enrico Letta che fece l'accordo con Berlusconi. Ma questa «via d'uscita», come spiega il costituzionalista ed ex parlamentare Pd Stefano Ceccanti, è probabilmente preclusa al leader spagnolo: «Solo la coppia da grande coalizione PP-Psoe avrebbe i numeri, ma è una possibilità esclusa da entrambi e soprattutto dal Psoe. Visto che il Pp è arrivato primo, dovrebbe esprimere il capo del governo e questo logorerebbe elettoralmente i socialisti a favore di Podemos. Il Psoe farebbe la fine dei socialisti greci, praticamente scomparsi dopo l'alleanza con Nuova Democrazia». La exit strategy alla tedesca, percorsa nel 2013 in Italia dopo varie catastrofi (il dramma Quirinale, con la bruciatura di Marini e Prodi e la rielezione sofferta di Napolitano; le dimissioni di Bersani), non sembra dunque percorribile. Il «governo del cambiamento» con Psoe e Podemos avrebbe numeri risicatissimi anche con l'aiuto dei partiti secessionisti, e il Pp, che ha la maggioranza assoluta in Senato, manterrebbe il diritto di veto. La conclusione più gettonata è dunque che si torni al voto, in primavera. Ma il timore è che i risultati non sarebbero diversi: per questo, conclude Ceccanti, «teniamoci stretto l'Italicum, che porterebbe ad un bel ballottaggio Pp-Psoe».
Non è un caso che proprio il gran pasticcio iberico offra su un piatto d'argento a Matteo Renzi l'occasione per celebrare la sua legge elettorale che, grazie al secondo turno tra i due primi arrivati, assicurerebbe un vincitore: «È la Spagna di oggi, ma sembra l'Italia di
ieri. Di ieri perché ora abbiamo cancellato ogni balletto post-elettorale. Sia benedetto l'Italicum, davvero: ci sarà un vincitore chiaro. E una maggioranza in grado di governare. Stabilità, buon senso, certezze. Punto».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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