Se gli stipendi degli italiani non reggono il confronto con quelli europei è colpa delle tasse. Le nostre retribuzioni, al lordo di imposte e contributi, sarebbero dignitose e in linea con gli altri indicatori economici, in primo luogo il Pil. Dopo la «cura» del fisco la situazione cambia e precipitiamo in fondo alla classifica. Se si considera il costo della vita, le nostre retribuzioni reali vanno in fondo alla classifica.
Dietro paesi come la Spagna, dove le imprese pagano il lavoro meno di noi, ma lo Stato non infierisce sulle buste paga. Con il risultato che un impiego di Barcellona o Madrid guadagna più di un collega parigrado italiano. Ma anche dietro la Grecia, dove il costo della vita è inferiore.
I dati sull'Italia visti da questa prospettiva mettono in luce il primo problema del Paese, quello di una pressione fiscale che mina competitività e qualità della vita. Nel rapporto dell'Osservatorio JobPricing diffuso ieri si calcola che un lavoratore dipendente in Italia, dati del primo semestre 2016, percepisce una retribuzione annua lorda media di 29.176 euro. Un dato in linea con quanto rilevato dall'Ocse «che ci colloca al 9° posto tra i 15 Paesi della zona Euro, nella stessa posizione dell'anno precedente. L'elevata incidenza del cuneo fiscale italiano fa sì che, considerando la retribuzione netta, l'Italia scivoli alla fine della graduatoria». Il riferimento è al rapporto Taxing wages dell'organizzazione di Parigi che è citato spesso per misurare il peso del fisco sulla busta paga, ma che ci dice anche un altra cosa: i nostri stipendi netti sono tra i più bassi d'Europa. Dietro la Grecia. Lontani dai livelli degli altri stati fondatori dell'Ue e anche dalla media dei Paesi Ocse. Incapaci di compensare nostre debolezze strutturali con l'unica ricetta possibile, tagliare le tasse sul lavoro, come hanno fato altri paesi Ue. Oltre al caso spagnolo (per un lavoratore singolo circa 34mila euro di costo del lavoro e stipendio netto medio da 22mila, contro 36mila euro lordi e 21mila in busta paga dell'Italia), si può citare l'Irlanda. Per un lavoratore single le aziende sborsano poco più di 30mila euro, e il lavoratore ne intasca quasi 24mila euro.
I pochi paesi dove le buste paga sono più leggere, sono anche quelle con un costo della vita molto più bassi di quello italiano. Secondo Eurostat l'indice dei prezzi in Grecia è inferiore del 20%. Considerando il potere d'acquisto l'Italia è peggio di Atene. I nostri 21mila euro diventano poco meno di 17mila se confrontati al potere di acquisto greco.
Tornando ai dati di Jobpricing, osservatorio specializzato in analisi sul mercato retributivo in Italia, emerge che il 95% dei dipendenti italiani è inquadrato come operaio o impiegato e solo l'1,3% ha la qualifica di dirigente. In questo caso la retribuzione media sale a 103.205 euro all'anno. I quadri, il 4,2% degli occupati, percepiscono in media 53.667 euro; gli impiegati 30.953 euro e gli operai 24.382.
Differenze notevoli. Ma anche in questo caso interviene la tassazione e tutto cambia. Al lordo, un dirigente guadagna oltre 4 volte un operaio, 3 volte un impiegato e circa il doppio di un quadro. Al netto della tassazione, «il dirigente guadagna mensilmente un netto pari a 3 volte un operaio, per via dell'effetto delle diverse aliquote applicate».
Tempi duri per le posizioni apicali del lavoro privato. Nel primo semestre del 2016 le retribuzioni in generale hanno registrato una crescita dell'1,7%, rispetto alla tendenza dello 0,1% che aveva caratterizzato il 2015. Quelle dei dirigenti hanno invece subito una contrazione.
Tra i dati interessanti, il peso della componente variabile dello stipendio. In altre parole, i premi di risultato. Pesano nelle retribuzioni dei dirigenti per 10,7%, 5,3% in quelle dei quadri e appena il 3,3% tra gli impiegati e operai. I premi di risultato ancora non sfondano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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