La sera andavamo all'Holey Bakery. L'abitudine si sa genera sicurezza e, talvolta, inconsapevolezza. Ma questo può valere soltanto per le vittime della barbarie di Dacca. Impegnate a lavorare in un paese non facile non avevano né il tempo, né le competenze per valutare la minaccia ed evitare un locale diventato un facile obbiettivo.
La stessa giustificazione non può però valere per le autorità chiamate a vigilare sulla sicurezza dei nostri connazionali. A 48 ore da quella strage c'è da chiedersi come mai la nostra ambasciata e i responsabili della sicurezza che vi prestano servizio non si siano presi la briga di metter sull'avviso la comunità italiana e di segnalare ai proprietari del ristorante e alle autorità di Dacca la necessità di posizionare guardie armate di fronte a un ritrovo di stranieri tanto esposto. Per non parlare del ritardo e della grossolana incompetenza con cui le autorità del Bangladesh hanno messo a segno un blitz che ha contribuito probabilmente a infliggere il colpo di grazia a chi non era già morto sotto i colpi dei terroristi. Certo con il senno di poi, si dirà, è facile predicare. Ma qui purtroppo c'è di mezzo anche il prima. Un prima che porta le date del 28 settembre e del 18 novembre.
Il 28 settembre, nello stesso quartiere della strage, muore crivellato di colpi in un agguato rivendicato dallo Stato Islamico il cooperante italiano Cesare Tavella. Il 18 novembre in un villaggio a 400 chilometri da Dacca viene gravemente ferito, in un altro agguato rivendicato dall'Isis, il missionario italiano Piero Parolari. Già quei due episodi dovrebbero indurre la nostra Ambasciata a richiamare alla massima vigilanza i nostri connazionali. Anche perché quei due agguati non assolutamente isolati, ma si inquadrano in un clima di crescente minaccia scandito da oltre 50 attacchi, molti dei quali letali, contro stranieri ed esponenti del pensiero laico locale. Ad avvallare il sospetto d'una colposa distrazione della nostra diplomazia s'aggiungono la posizione e il ruolo di abituale ritrovo della comunità italiana assunto in questi anni dall'Holey Artisan Bakery. Il locale, distante poco più di cento metri dalla nostra rappresentanza, era un ritrovo abituale non solo per i comuni espatriati, ma per gli stessi diplomatici. Anzi a sentir le testimonianze rese a Il Giornale da frequentatori abituali di Dacca sembra che ai tavoli dell'Holey si sedesse talvolta anche il nostro ambasciatore.
A questo punto dopo i cinquanta e passa attacchi agli stranieri, l'omicidio di Tavella, il ferimento di Parolari, l'evidente presenza di cellule dello Stato Islamico e la tendenza dei terroristi a colpire obbiettivi indifesi sarebbe stato naturale attendersi una particolare attenzione della nostra ambasciata per la sicurezza di quel ristorante. Un attenzione esercitata da una parte mettendo sull'avviso i nostri connazionali e dall'altra esercitando pressioni su autorità e proprietari del ristorante affinché garantissero una vigilanza armata. «Sapevo che sarebbe successo e per questo avevo già pianificato la mia fuga. Sarei salito sul tetto e poi sarei saltato giù. Così mi sarei salvato», ha raccontato sabato il cuoco italo argentino Diego Rossini sopravvissuto alla strage proprio per aver da tempo studiato una via di fuga in caso di attacco.
È possibile che la nostra intelligence, solitamente molto attenta, non si sia posta gli stessi interrogativi di quel cuoco? O se li è posti e non è stata ascoltata da una diplomazia troppo attenta a non urtare la suscettibilità di un governo del Bangla Desh che continua, ancora adesso, a negare la presenza dell'Isis sul proprio territorio? Interrogativi che non restituiranno la vita ai nostri connazionali, ma potrebbero aiutare ad evitare il ripetersi di stragi tanto sanguinose quanto facili e comode da metter a segno.
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