«Da esami e perizie sono emersi spunti investigativi interessanti. L'inchiesta va avanti». Trentaquattro anni dopo, Ustica è ancora un caso aperto. Le parole del pm Vito Bertoni riaccendono i riflettori sul Dc 9 Itavia inabissatosi nel Tirreno la sera del 27 giugno 1980. Il sostituto procuratore indaga ora sulla morte di Alessandro Marcucci e Silvio Lorenzini, uccisi dallo schianto del loro Piper, precipitato sulle montagne di Carrara il 2 febbraio del 1992. Un incidente, s'è creduto per anni. Poi, nel marzo del 2013, l'associazione antimafia «Rita Atria» ha ottenuto la riapertura delle indagini, avanzando elementi a sostegno d'una tesi diversa, inquietante come tutto ciò che ruota attorno alla vicenda: a far cadere il piccolo velivolo non sarebbe stato un errore umano, come invece sostenuto dalla commissione d'inchiesta che archiviò l'accaduto alla voce imperizia, bensì una bomba al fosforo nascosta a bordo, probabilmente nel cruscotto. Un attentato, insomma, per togliere di mezzo un testimone scomodo: Alessandro Marcucci, colonnello, era un ex pilota dell'Aeronautica Militare, nel 1980 in servizio all'Aerobrigata di Pisa. Alle sue orecchie erano giunte le confidenze del collega maresciallo Mario Alberto Dettori, che agli amici aveva riferito di ritenere una bufala l'abbattimento del Mig libico poi trovato schiantato sui monti della Sila e ricollegato alla strage, fornendo loro indicazioni sugli aerei militari presenti nei cieli italiani nelle ore del disastro. Per questo Marcucci era finito nella lista dei testimoni dell'inchiesta firmata dal giudice Rosario Priore, guadagnando gli onori della cronaca cinque giorni prima dell'ultimo volo per le critiche rivolte in un'intervista ad un altro dei personaggi «chiave» dell'inchiesta su Ustica: il generale Zeno Tascio, tra il 1976 ed il 1979, comandante dell'aeroporto di Pisa.
Elementi tali e tanti da indurre effettivamente più d'un dubbio, senza schiudere tuttavia scenari definiti. In linea con la teoria del complotto che caratterizza da sempre le storie di Ustica, affollate di ombre e sospetti che quasi mai si sono vestiti di sostanza, fino a sconfinare nel paradosso di una magistratura (e d'uno Stato) incapace di individuare anche un solo colpevole ma che in sede civile, col timbro della Cassazione, ha dato per scontata una ricostruzione per assurdo mai confermata dai giudici penali: ad abbattere il Dc 0 fu un missile.
Adesso, in qualche modo, si ricomincia. La Procura di Massa parte dalla scomparsa del colonnello Marcucci, integrando la lunga lista dei nomi di chi avrebbe pagato caro il sapere qualcosa sulla strage. Nell'elenco il maresciallo Dettori, trovato penzoloni da un albero il 30 marzo del 1987. Impiccato. Come nel 2002 Michele Landi, consulente di Fiamme gialle e Sisde che aveva scandagliato i sistemi di puntamento missilistici, e prima di lui (nel 1995) il tenente colonnello dell'Esercito Mario Ferraro, esperto di terrorismo internazionale, ed il maresciallo dell'Aeronautica Franco Parisi, che il 18 luglio, mentre il Mig libico prendeva fuoco sulle montagne silane, era di turno nella sala operativa di Otranto. E poi il generale Licio Giorgieri, assassinato dall'Unione comunisti combattenti nel 1987 ed in precedenza a lungo ai vertici del Registro aeronautico italiano guidato dal generale Saverio Rana, il primo ad avanzare l'ipotesi del missile e stroncato da un infarto. 538em;">Tra malanni, disgrazie, incidenti d'auto e d'aereo, ventuno «testimoni» morti. Compreso Marcucci. «Non ci sono indagati», frena Bertoni, ma «c'è la necessità di ulteriori accertamenti». Avanti, allora. A cercare la verità.
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