I vertici - a partire dal Consiglio superiore della magistratura - trafficoni e collusi con la politica. La base - ovvero i novemila magistrati italiani - seri ed onesti, impegnati solo a lavorare in silenzio. È questa la narrazione che sta passando dello scandalo che ha investito la giustizia italiana grazie all'inchiesta della procura di Perugia sul marcio nel Csm. Quadro in larga parte corretto. Ma che non fa i conti con un male cronico della magistratura tricolore: la scomparsa di qualunque forma di meritocrazia all'interno dell'apparato giudiziario, con il sistema delle carriere trasformato in una gigantesca finzione in cui i giudici sono tutti bravi: come se non esistessero anche tra le toghe, come in ogni categoria umana, i fannulloni e gli incapaci.
Che questo appiattimento abbia contribuito a imbarbarire il sistema della rappresentanza istituzionale (cioè il Csm) che sindacale (l'Anm) della magistratura italiana è piuttosto ovvio: se il merito non conta nulla, hanno campo aperto le cordate e le capacità di relazione. E che di appiattimento si debba parlare lo dimostrano le statistiche che proprio sul sito del Csm raccontano come funziona il sistema di avanzamento dei magistrati. Un dato su tutti: negli ultimi dieci anni sono stati «promossi» il 98,22 per cento dei magistrati. Una percentuale siderale, che negli ultimi due anni disponibili (il 2015 e il 2016) ha raggiunto picchi ancora più alti: rispettivamente, il 99,56 e il 99,30 per cento.
Quale organismo possa sopravvivere a una simile prassi di promozioni indiscriminate è una domanda inevitabile. D'altronde se dalle aride cifre si passa alla lettura dei pareri che accompagnano questi avanzamenti di carriera a volte si rasenta l'effetto comico. Nei giudizi che i capi degli uffici consegnano in vista degli esami, i magistrati appaiono tutti come laboriosi, efficienti, profondi conoscitori della materia di cui si occupano. Anche quando si tratta di capre conclamate. Come diceva Francesco Saverio Borrelli: «Di alcuni mi domando non come abbiano fatto a entrare in magistratura ma come siano riusciti a laurearsi».
Questo sistema che rende todos caballeros d'altronde è figlio della cultura sessantottina che - con qualche anno di anticipo - fece irruzione nella magistratura italiana nel 1966, sopprimendo i concorsi interni e consentendo a tutti i giudici indistintamente di progredire nel grado e nello stipendio unicamente in base all'anzianità. Così i palazzi di giustizia si popolarono di consiglieri di corte d'appello che in realtà continuavano a fare i pretori o a indagare sulle rapinette. Nel 2006 il sistema venne solo apparentemente mutato: sette valutazioni di professionalità successive, una ogni quattro anni, affidate al consiglio giudiziario locale. Sulla carta, un controllo costante della qualità dei magistrati, all'insegna del «va avanti solo chi lo merita».
Ma le cose sono andate diversamente. I consigli giudiziari decidono sulla base dell'autovalutazione del diretto interessato (che è sempre positiva), e del parere del suo superiore diretto. Che tiene conto della produttività ma anche della disciplina, del conformismo, della piaggeria, e di altri umani mezzi di sopravvivenza. Così si spiega quella surreale percentuale del 99,30 per cento di promossi.
Certo,
ci sono anche quelli che non ci riescono, che vengono bocciati. Ma si tratta di poche unità all'anno, di casi estremi come il protagonista della storia qua sotto. Che non vengono promossi, ma continuano a fare i giudici.
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