Quando passi il check point la guerra ti divora

Jean-Christophe Rufin trasforma il conflitto in Bosnia nel palcoscenico dei nostri dubbi etici

Quando passi il check point la guerra ti divora

Quanto è difficile distinguere tra buoni e cattivi nel bel mezzo di una guerra civile? Quanto ciascuno di noi è disposto a rischiare per schierarsi da quella che ritiene la parte giusta? E quanto è grande il rischio di sbagliare la propria scelta, di essere ingannati?

Queste tre domande sono il filo conduttore del romanzo di Jean-Christophe Rufin appena tradotto per i tipi di e/o: Check Point (pagg.298, euro 18). Il titolo è già un buon riassunto della trama e del tema della narrazione. Perché il check point marca il confine tra il pericolo e la tranquillità, tra una popolazione e l'altra, tra la pace e la violenza. E i protagonisti di questo, che in fondo è un libro on the road, ne incontreranno parecchi di punti di controllo, zeppi di miliziani, nella loro discesa nel cuore della Bosnia anni novanta.

Rufin, infatti, racconta la storia di un quintetto di operatori umanitari che partono dalla Francia, siamo nel 1995, ufficialmente per trasportare aiuti per la città di Kakanj, dove i musulmani di Bosnia sono prigionieri dei Croati. Ma gli equipaggi dei due scassatissimi camion si rivelano subito molto particolari, e composti da soggetti incompatibili tra loro. Vanno verso una guerra ma prima ancora di giungervi sembrano riprodurne le caratteristiche già all'interno delle cabine di guida. C'è Lionel, attivista “esperto”, che sta facendo carriera nella Ong - è uno che sgomita parecchio- e pretende di guidare il gruppo. C'è Maud, ragazza bella che si insacca in vestiti da maschio, che è su quel camion per ribellione e idealismo. Ci sono due ex militari Alex e Marc. Hanno militato con i caschi blu proprio nei dintorni del distretto minerario di Kakanj e sin da subito fanno capire che secondo loro non bastano certo delle latte di zuppa e dei calzini caldi a sistemare le cose. E poi c'è il misterioso meccanico Vauthier che non sta simpatico a nessuno e che a tutti sembra un poliziotto.

Già così ci sarebbero tutti gli elementi per far detonare la missione, anche senza contare l'estenuante rituale di controllo dei documenti dell'Onu ai posti di blocco improvvisati, la paura di essere comunque rapiti o rapinati, i tentativi dei miliziani di farsi dare dei soldi o farsi mollare parte del carico. Solo che, ormai nel bel mezzo del territorio bosniaco a un certo punto salta fuori la verità. Sul camion non ci sono soltanto viveri e vestiti, ma anche esplosivi. Ovviamente quel tipo di merce che trasportata in zona di guerra rischia di farti finire immediatamente davanti ad un plotone d'esecuzione. A caricarli sul camion i due militari, Alex e Marc. Agli altri resta da capire il perché. Per aiutare gli abitanti di kakanj a tenere aperte le miniere che sono una risorsa fondamentale? Per aiutare una delle parti in guerra? Perché sono dei trafficanti d'armi? Gli altri membri della spedizione dovranno fare una scelta. Schierarsi. E nel farlo non sempre a guidarli saranno le idealità. Anzi, scenderanno in gorgo di violenza, diventando essi stessi parte del conflitto. Non ha senso raccontare al lettore come va a finire, non mancano i colpi di scena, a volte anche molto amari.

Vale piuttosto la pena di dire che l'autore Jean-Christophe Rufin conosce molto bene l'ambiente che racconta. È stato medico e tra i fondatori di Medici senza frontiere, ambasciatore in Senegal, ed è il presidente di Action Contre là Faim. Quindi su come funzionino l'Onu e gli aiuti umanitari ha le idee piuttosto chiare. Durante la guerra di Bosnia è stato davvero a Kakanj e ha visto le sofferenze dei civili. Per altro avendo vinto un premio Goncourt con un precedente romanzo ed essendo membro dell'Académie française sa anche come raccontare queste esperienze rendendole letteratura. Ne esce un quadro molto duro e per niente edulcorato rende l'idea di come nei conflitti sia veramente difficile non sporcarsi le mani.

E nella postfazione al romanzo Rufin spiega anche perché ha deciso di tornare sulla vicenda Bosniaca proprio ora. Non solo per questioni di anniversari, siamo a vent'anni dall'intervento armato seguito alla strage del mercato di Sarajevo. L'idea di Rufin è che con il divampare del terrorismo la guerra sia sempre più un qualcosa che ognuno di noi si trova in casa. Insomma che il check point che ci separa dalla violenza sia sempre più labile, più a ridosso della nostra casa.

E che a tutti noi toccheranno scelte difficili: «Dai cristiani d'oriente ai disegnatori di Charlie, dalle ragazze rapite in Nigeria agli ostaggi sgozzati in Siria, ci sono ovunque vittime nuove in cui ritrovo i volti visti a Kakanj... Sono vittime che viene voglia di amare con un amore particolare: quello che incita a prendere le armi».

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