Quel divorzio da Bankitalia e la scommessa Bazoli per salvare l’Ambrosiano

Da responsabile del Tesoro mise un vincolo all’emissione di Bot e Cct Dopo la morte di Calvi puntò sull’attuale presidente di Intesa-SanPaolo

da Roma

Sembrerà forse paradossale, ma un cattolico tutto d’un pezzo come Nino Andreatta è ricordato come l’«uomo del divorzio». Non certo dalla moglie, la signora Giana, che non l’ha abbandonato per un istante in questi lunghi anni di coma. Il «divorzio» fu quello fra Tesoro e Banca d’Italia, messo a punto insieme con l’allora governatore Carlo Azeglio Ciampi: fino al 1981, la banca centrale era infatti obbligata a sottoscrivere le emissioni di titoli di debito pubblico non collocate presso il pubblico. «Bisogna mettere un corsetto monetario stretto alla politica», disse per spiegare il provvedimento. Fu lo stesso Andreatta a modificare la gestione del debito pubblico, allungandone le scadenze, allontanandosi dal solito modello Bot. Quel «divorzio» è stato poi ricordato come una svolta, nella lunga strada verso la stabilità monetaria e finanziaria del Paese.
In quell’estate del 1981 Nino Andreatta era ministro del Tesoro nel governo Spadolini. S’era avvicinato alla politica molto prima, negli anni Sessanta, elaborando con altri studiosi la «piattaforma economica» del centrosinistra. In quest’opera era aiutato dalla sua formazione accademica neo-keynesiana, che appariva perfetta da coniugare con il solidarismo cattolico. Andreatta era laureato non in economia ma in giurisprudenza, all’università di Padova. Poi aveva studiato economia alla Cattolica di Milano ed era stato a Cambridge come visiting professor. Nel 1961 era stato inviato in India, per collaborare alla Planning Commission del governo Nehru. Tornato in Italia, professore alla facoltà di Scienze politiche di Bologna da lui stesso fondata, diventò il punto di riferimento degli economisti cattolici, nel ’74 fondò Prometeia, il centro di analisi e previsione economica bolognese; e nel ’76 l’Arel, agenzia di ricerche e legislazione. Raccolse intorno a sé una vera e propria scuola, i nomi vanno da Angelo Tantazzi a Romano Prodi, ad Alberto Quadrio Curzio. Fondò l’Università di Cosenza sul modello dei campus anglosassoni: una scommessa sul Mezzogiorno che per altri democristiani era soltanto territorio di assistenzialismo e clientelismo elettorale.
Personalità brillante, carattere difficile. I suoi presidenti del Consiglio lo ricordavano come ministro tutt’altro che accomodante. Paradossalmente, il premier con cui è andato maggiormente d’accordo è un laico, Carlo Azeglio Ciampi. Dell’intesa fra i due ai tempi del «divorzio» s’è detto. Ma ci fu un’altra operazione a due, sempre in quel complicato inizio degli anni Ottanta, destinata a lasciare un segno nella finanza italiana, un segno che dura ancora oggi: il salvataggio del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Andreatta e Ciampi, insieme, decisero di affidare la ricostruzione della banca a un avvocato bresciano, figlio di un parlamentare democristiano: Giovanni Bazoli. Nino (Andreatta) aveva conosciuto Nanni (Bazoli) all’Arel, e ne apprezzava le doti. Lo lanciò nell’arena della Grande Finanza, dove il banchiere è diventato una super potenza. Anni più tardi, all’epoca del governo Amato, Andreatta si spese molto per far accettare a Bazoli un incarico da ministro del Tesoro, ma senza successo.
Andreatta probabilmente non è stato un grande economista, nonostante fosse divenuto ordinario a soli 34 anni. È stato però un uomo coraggioso, non ha avuto remore a prendere posizioni scomode. Enrico Letta, un «Andreatta boy», ricorda che la sua inflessibilità sui principi «lo ha portato a pagare prezzi politici» elevati.

È solo una coincidenza, ma ieri mattina, poche ore prima della scomparsa, la figura di Andreatta era stata ricordata alla Camera da Enrico Morando e Mario Baldassarri, parlamentari di partiti molto distanti tra di loro, a una delegazione del Fondo monetario internazionale, che è in Italia per aiutarci a migliorare i criteri di spesa pubblica. Ed è stato ricordato a Bruxelles, in piena riunione Eurogruppo, da Tommaso Padoa-Schioppa: «È stato uno dei grandi italiani che ho conosciuto».

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