Quel liberista sanguinario

Fu Augusto Pinochet. Quel nome spiccò subito tra gli altri dei congiurati che avevano attuato il golpe cileno dell’11 settembre 1973. Spiccò benché in effetti Pinochet fosse stato, fra i tre comandanti delle armi, il più esitante nel (...) (...)dare il suo consenso alla congiura: l’ammiraglio José Merino e il generale d’aviazione Gustavo Leigh s’erano mostrati più risoluti, e l’ammiraglio in particolare aveva rotto gli indugi, nella base navale di Valparaiso. Ma noi giornalisti chiusi nell’hotel Carrera che si affaccia sulla piazza de La Moneda (la residenza presidenziale), e che avevamo potuto seguire l’attacco al palazzo in tutte le sue fasi, sapevamo che a Pinochet sarebbe spettato il ruolo di primus inter pares: questo per la semplice ragione che all’esercito era per tradizione riconosciuta una maggiore autorità. Chiusi nell’hotel Carrera, e senza possibilità di comunicare con l’esterno e soprattutto con le nostre lontane redazioni, rimuginavamo sugli avvenimenti. (In realtà, per pura fortuna, e profittando di una tregua nel black-out concessa a un diplomatico Usa, ero riuscito a telefonare una cronaca veloce per la seconda edizione del Corriere: ma un’impuntatura sindacale impedì l’uscita della seconda edizione e il mio scoop andò in fumo). Rimuginavamo dunque su un evento che non avrebbe potuto essere più prevedibile. Il dubbio non riguardava il golpe, certo, ma la sua data. Avevamo pensato che il giorno fatale potesse essere il 19 settembre, per via d’una parata militare. Invece furono bruciati i tempi. Carlos Prats, che aveva preceduto Pinochet al comando dell’esercito, e che era lealista ma senza illusioni, si era dimesso, così come l’ammiraglio Raul Montero (il che aveva spianato la rotta al putschista Merino). Allende si divincolava tra contraddizioni, contatti, promesse, velleità. Voleva indire un plebiscito in cui il popolo gli confermasse o negasse la fiducia, ma era troppo tardi. «Mi perdoni presidente - gli aveva detto Prats, prima di “lasciare”, durante una riunione - ma lei si sta perdendo in un mare di illusioni. Come può parlare di un plebiscito che richiederebbe 30 o 60 giorni di preparazione se entro una settimana avremo il colpo di Stato?». E Allende: «Quale altra soluzione mi propone lei, posto che una intesa con la Democrazia Cristiana pare impossibile?». Prats: «Le suggerisco di chiedere una licenza costituzionale, salire su un aereo con la sua famiglia e lasciare il Cile». Davvero non c’era altra soluzione che il colpo di Stato per quel Cile alla deriva il cui disordine endemico, la cui paralisi produttiva, le cui code davanti ai negozi e la cui inflazione erano la testimonianza dell’incapacità di governare della sinistra populista. Avevamo dunque visto con i nostri occhi La Moneda mitragliata e attaccata dal cielo (un proiettile vagante aveva infranto la vetrata della mia camera al Carrera), poi il gruppo dei collaboratori di Allende che, con bandiera bianca, uscivano dal portone principale. Il Presidente si era avviato con loro: ma poi, in un soprassalto eroico di dignità, s’era ucciso con la mitraglietta che Fidel Castro gli aveva regalato. Del suicidio ero sicuro fin dal primo momento, e ne avevo avuto conferma, successivamente, da Carlos Briones che era stato ministro dell’interno di Allende. Ma nel sostenere questa tesi - che era puramente e semplicemente la verità - dovevo scontrarmi con una vulgata - enunciata con tonante enfasi - secondo cui il Presidente era stato colpito mortalmente mentre dalla Moneda faceva fuoco contro i ribelli. Chissà perché, questa versione sembrava più suggestiva. Aveva comunque il torto d’essere falsa. Il golpe incombeva da mesi. Fui presente anche quando un battaglione di carri attaccò La Moneda, il 29 giugno precedente, nel cosiddetto «tanquetazo», prova generale del golpe. S’era sparato - i morti furono 22 - e a pochi passi da me un operatore della televisione svedese era stato fulminato dalla raffica d’un carrista. Questo conato insurrezionale venne sedato, ma era solo una tregua. Nessuno di noi giornalisti fu dunque colto di sorpresa dal golpe. Ci sorpresero e angosciarono, invece, le sue modalità. Il Cile era, per il metro latinoamericano, un Paese dove le Forze armate non interferivano, mancava la tradizione golpista dell’Argentina o del Brasile o peggio ancora della Bolivia. Si pensava che questi militari costretti a prendere in mano la situazione per causa di forza maggiore si limitassero a determinare un periodo di sospensione della politica, e di ritorno alla quiete economica e sociale: dopodiché sarebbero rientrati nelle caserme. Vi fu invece qualcosa di molto più duro e sanguinario, una crociata contro «el cancer marxista», il cancro marxista. Un dispotismo ideologico - con totale sudditanza dei mezzi d’informazione - associato a un liberismo esasperato che tuttavia ha avuto, nel lungo periodo, benefici effetti. I mezzi d’informazione furono, lo ripeto, sottomessi: ma il Mercurio, maggior quotidiano cileno, risultò sempre di gran lunga più attendibile del cubano Granma. Augusto Pinochet aveva l’anticomunismo nel suo Dna. Era un giovane capitano quando nel 1946 il radicale Gabriel González Videla era stato eletto presidente grazie ai voti dei comunisti. Ma poi, ricordò Pinochet in una intervista, era sopraggiunta la mancanza di generi alimentari di prima necessità. «Nel 1947, quando la violenza cominciò a dilagare, il presidente affidò a noi militari il compito di ristabilire l’ordine. E di arrestare gli estremisti comunisti che infatti nel 1948 furono messi ufficialmente fuori legge». Peraltro Pinochet aveva avuto frequenti contatti con Allende. «Era solito telefonarmi alle 11 di mattina e convocarmi al palazzo presidenziale, e lì mi parlava della miseria del popolo, della necessità di aiutare la gente».

Povero Allende, voleva convincere Pinochet e insieme voleva convincere i fanatici del Mir, movimento della sinistra (izquierda) rivoluzionaria, secondo i quali erano necessarie, per il bene del Cile, alcune cosette: come l’esproprio di tutte le imprese della grande borghesia industriale, l’esproprio senza indennizzo del capitale nordamericano, l’esproprio senza indennizzo della terra, lo scioglimento del Parlamento e la costituzione al suo posto di un’Assemblea del popolo. Pinochet fu feroce ma questi cosiddetti alleati di Allende, che lo portarono alla rovina, erano matti pericolosi.

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