Milano - Alle sette della sera, un irriconoscibile Maurizio Mosca – taciturno, pensieroso, assorto addirittura - varca il portone di quello che fu il palazzo dei giornalisti, dalle parti di piazza Repubblica. Mosca, l’apoplettico, facinoroso gladiatore delle arene televisive dove ci si scanna per un fuorigioco, abita al secondo piano. Massimo Fini al quarto. Da ragazzi, entrambi figli di giornalisti, giocavano a pallone insieme. Qui sono rimasti; o tornati, nel gioco dell’oca della vita, a scrutare i segni del tempo che passa l’uno nel volto dell’altro.
Al telefono, quando dico a Massimo che mi piacerebbe una sua testimonianza sul Sessantotto, esala un gemito. «Il Sessantotto? Ancora? Ma sono passati quarant’anni!» Appunto, gli rispondo, mettendomelo a braccetto. «Sai com’è nei giornali. Il decennale, il trentennale, il quarantennale... Insomma, non ti puoi sottrarre».
«Allora vieni, ti aspetto», mormora rassegnato.
La casa di Massimo Fini non è una casa. È un casino. In salotto, dove lavora, lievita una formidabile baraonda di libri e giornali impilati; un manicomio di ritagli, lettere e carte sparse da cui occhieggiano un tavolino, il divano, il giradischi, il televisore. Qui e là, seminati sapientemente alla rinfusa, le copie di alcuni dei suoi libri: Il ribelle, Ragazzo, una locandina del Cyrano. La scusa è che deve metter mano, ai libri, per non si sa quale futura edizione. In realtà sono un omaggio al suo narcisismo. E insieme, un modo per rincuorarsi – impugnandoli ogni tanto, palpandoli - lungo i saliscendi del suo umore cromatico.
Giornalista controcorrente, politicamente altrove rispetto alle ammuffite categorie di destra e sinistra, saggista originale e spietato impalatore della Modernità (vedasi: Sudditi. Manifesto contro la democrazia o ancora meglio: La ragione aveva torto). Fini vive appartato come un trappista del giornalismo. Non aspettatevi di vederlo ai talk show, che disprezza. I suoi commenti, le sue invettive compaiono su alcuni giornali regionali (samizdat, li chiama lui) di fiato corto e diffusione meschina. Il Corriere, la Repubblica non se lo possono permettere. Troppo insofferente. Troppo bastian contrario. Troppo ribelle, anche a se stesso. Troppo intelligente, per colmo di scandalo.
Nel Sessantotto Massimo Fini aveva 24 anni, e si era appena laureato in giurisprudenza, con lode. Poi, all’università, alla Statale di Milano, si prese ad andarci solo per occuparla. L’immaginazione al potere, si diceva...
«E io ero lì in mezzo – confessa Fini tornando dalla cucina con due bicchieri di vino bianco -. Partecipai alla prima e alla seconda occupazione. Me ne andai quando vidi che si picchiava la gente in 30 contro 1. E quando mi resi conto che stava prendendo piede lo stesso conformismo che a parole si voleva abbattere. Prima, il costume voleva che si andasse all’università in giacca e cravatta. Poi divenne obbligatorio l’eskimo. L’ordine di servizio era perentorio. Bisognava essere laici, democratici, antifascisti. Tutti gli altri erano nemici».
Una breve esperienza professionale alla Pirelli, assunto da Arrigo Castellani, l’inventore del celebre calendario. Poi un concorso in magistratura. «Quattromila concorrenti. Cento dei quali con la traccia dei temi già in tasca. Scrissi la storia per l’Avanti. Mi presero».
Torniamo al Sessantotto. Cos’è stato, secondo te? «Una truffa. Una truffa perpetrata dai figli della borghesia che volevano abbattere la borghesia. Per non dire della malafede dei leader del Movimento. Fatta eccezione per Mario Capanna, gli altri erano occupati solo a lucidare i loro nomi, a primeggiare nelle assemblee. Indossavano l’eskimo, ma puntavano già alla direzione del Corriere della Sera».
Ci siamo, ora arriva il Fini migliore, il grande sciabolatore di luoghi comuni. Lo guardo, seduto in scarpe da tennis su una seggiola al centro del suo marasmatico salotto, il bicchiere di bianco in mano. Massimo è l’uomo scarruffato di sempre. Anche i capelli, che gli stanno di sghimbescio, non hanno ancora trovato requie. Non fuma quasi più, però. Le sigarette ora si limita a mangiarle.
La Statale del Sessantotto. Ovvio che in tutto quel fervore, e in quelle gioiose giornate, di tempo per studiare non ne restava un granché, gli butto là. «L’esame collettivo. Il 30 obbligatorio, ti ricordi? Una generazione di architetti distrutta dall’ignoranza. La borghesia era stata così intelligente da arruolare i figli più volonterosi del proletariato, dandogli un’opportunità di affermarsi studiando. Col ’68 quei ragazzi la presero nel sedere, mentre i figli di Enrico Berlinguer studiavano alla scuola americana».
Cambiò il costume, se non altro. La libertà sessuale, il femminismo, azzardo. «Ma no, ma no – protesta agitandosi sulla sedia -. La libertà sessuale era già nata al tempo dei Beatles e di Mary Quant. Lo stesso vale per il femminismo. Che hanno inventato, questi signori? La creatività al potere, diceva uno slogan. Ora tu dimmi se nel cinema e nelle arti il Sessantotto ha segnato una svolta. Nanni Moretti? Ma siamo seri».
Però i protagonisti di quegli anni, almeno quelli che avevano il golfino di cachemire sotto l’eskimo, hanno avuto successo. Volevano rovesciare il potere, e strada facendo, al potere si sono tutti infeudati, scoprendo che non era poi così male.
«Una generazione di falsi rivoluzionari che avevano già il cuore e il portafogli a destra. E che destra! L’opportunismo, le relazioni: furono quelle le loro doti migliori; i piedistalli su cui si issarono. Marx ed Engels furono un passatempo. Da capi, nelle fabbriche, sono stati peggiori dei padroni delle ferriere. Per non dire di quelli che si illustrarono nel giornalismo. I Paolo Mieli, i Claudio Rinaldi, i Liguori, i Sofri. La generazione dei terroristi è stata più seria, se non altro. Almeno quelli pagavano di persona».
Spezza una sigaretta, se ne mette un moncone tra le labbra. Gli domando: che cosa, retrospettivamente, giudichi insopportabile di quegli anni?
«Il conformismo, il moralismo, del movimento – risponde di getto -. Mi ricordo di un sindacalista, Giuseppe Conti, che le prese perché accusato di amare la notte e il vino. Lotta Continua pubblicava le foto, gli indirizzi, le abitudini dei “nemici del popolo” o presunti tali, incitando i compagni a colpirli. Adriano Sofri dovrebbe star zitto anche solo per questo».
Invece fa la vittima. «Ma per favore. Ha avuto 9 processi, 4 o 5 sentenze di condanna, una di assoluzione, 3 interlocutorie e una revisione del processo. Il massimo mai concesso a un cittadino italiano. Di che si lamenta?».
Il femminismo, le donne. Sarà poi vero che il Sessantotto spezzò il giogo del maschilismo? «È vero il contrario. Le femmine, nel Movimento studentesco, erano utilizzate nel modo più maschilista possibile. Ma poiché i comunisti erano vincenti, le ragazze andavano tutte da quella parte. Mi ricordo ancora che Michelangelo Spada, uno dei capipopolo alla Statale, rubò la donna al fratello di Ivan Della Mea, il cantautore. Così, con un gesto d’imperio, come avrebbe fatto un don Rodrigo. Del resto, i repubblichini cantavano una canzone che diceva: “Le donne non ci vogliono più bene”. Le femmine così son fatte. Vanno dove c’è il potere».
Sicché, quando gli domando se per caso è rimasto qualcosa di salvabile, dopo quella sventolata, la mia gli pare una provocazione. Mi guarda un po’ di traverso, divertito, mastica un grumo di tabacco, poi riflette a voce alta: «È rimasta la lobby dei vecchi ragazzi che non accettano di abbandonare lo status giovanile. Altro non vedo».
Da un pezzo Massimo Fini ha abbandonato il giornalismo sul campo. Da allora si annoia quietamente, trascorrendo giornate che lui definisce “squallide”. «Ho le rubriche da scrivere, dunque mi tocca leggere i giornali: veleno puro. Parlano tutti di roba che non so a chi interessi. Quanto alla libertà dei giornalisti: finita. I giornalisti sono tutti schierati, come agit prop. Ormai fanno un altro mestiere».
È stato così, passando da uno sdegno all’altro, sempre più isolato nella sua trappa intellettuale, che Massimo ha finito per diventare un seguace del mullah Omar, il “grande eroe romantico” che fugge in sidecar beffando gli americani.
«Anche il khomeinismo non mi dispiace. Discutibile, certo. Ma lì ci sono valori forti, largamente condivisi. Noi invece abbiamo elaborato il vuoto, il disimpegno, l’edonismo al più basso livello». Come siamo ridotti, è scritto a pagina 180 del suo Il ribelle. «Si dirà – leggo - che il fondamentalismo democratico e mercantile, a differenza di quello khomeinista, non vuole martiri né sacrifici umani. Ma alle volte bisogna pur chiedersi per che cosa si vive e per che cosa si muore.
Da noi si può anche morire, senza accorgersene, di Jovanotti, di Chiambretti, di Pupi, di Venture, di Fiorelli, di Costanzo, di Vespa».Come dire: doveva essere una rivoluzione, ed è andata a planare sull’Isola dei famosi.
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