"Questa foto è diventata il mio inferno"

Mattia Piras è il simbolo della strage in un'immagine che ha fatto storia: "Da allora quando respiro sento l'odore della morte"

"Questa foto è diventata il mio inferno"

«Quando siamo arrivati sul ponte ho incominciato a sentire quell'odore. Un tanfo dolciastro, un misto di carne bruciata e altri miasmi. Mi entrava nella gola, mi scendeva nei polmoni, mi torceva lo stomaco. Da quel giorno non se n'è mai più andato. Mi è rimasto dentro. Da quel 12 novembre quando respiro qualcosa di simile rivedo le immagini tornare. Sono una processione. Un incubo ricorrente. Arriva l'odore e poi arrivano loro. Sempre assieme. Sempre le stesse. Tutte in fila dietro a quel lezzo. Vedo quell'asinello tranciato in due dall'esplosione. Vedo la sua carcassa appena oltre il ponte. Mi ritrovo tra le macerie. Mi rivedo sull'orlo di quella voragine. Sai cos'è una un baratro di due metri? È tanta roba. Troppa roba. Soprattutto se sai che lì dentro son finite le vite dei tuoi amici. E io lo sapevo. Solo quando ho visto quel buco nero ho capito che non sarebbero mai più tornati».
Il caporal maggiore capo Mattia Piras oggi ha 34 anni. Da dieci è il simbolo vivente della strage di Nassirya. Il militare con una mano sull'elmetto ed il mitragliatore abbassato. Il militare che scruta impotente quel baratro davanti alle rovine spettrali della palazzina sventrata dal camion bomba è Mattia. «Quella foto mi insegue da dieci anni. Quando l'hanno scattata non me ne sono neppure accorto. In quel momento avevo altri pensieri. Pensavo al tenente Massimo Ficuciello e al Maresciallo Silvio Olla. Erano i miei due compagni di scrivania dell'ufficio Pubblica Informazione. Quella mattina toccava a loro alzarsi presto e accompagnare ad “Animal House” il regista Stefano Rolla e il suo collega Aureliano Amedei quello che sopravvisse e fece il film delle Venti sigarette. Quando mi hanno scattato quella foto scrutavo il baratro e pensavo ai loro volti. Sapevo già che non li avrei più rivisti. Sapevo che erano stati inghiottiti, triturati da quell'inferno nero. In quel momento facevo i conti con la loro morte. In quel momento respiravo l'orrore che m'invadeva lo stomaco e mi rovesciava le budella. Poi piano piano quella foto è diventata più grande di me. Più grande di quel che vedevo. Più grande di quel che vivevo. Ma non me ne accorsi subito. In quei giorno io e gli altri sopravvissuti non avevamo tempo per riflettere. Lavoravamo e dormivamo. Vivevamo una specie di sogno irreale. La foto me la fece vedere mia madre, qualche settimana dopo, quando rientrai a casa. Quando la vidi non ci potevo credere. Era arrivata perfino sulle pagine di un Newsweek in arabo. Ed io invece non la sapevo nemmeno raccontare. Davanti a quella foto arrivata ovunque, io non riuscivo a spiaccicar parola. Per me era, resta ancora oggi, l'istantanea in cui si condensa la perdita di due amici e degli altri colleghi divorati da quel girone infernale».
Mattia si ferma per un attimo. Al telefono senti la sua voce contrarsi serrarsi in un singhiozzo trattenuto a stento. «Quel pomeriggio quando guardavo quell'inferno rivedevo Silvio che la sera prima mi raccontava i suoi progetti, mi spiegava la sua voglia di tornare e metter su casa. Risentivo le battute di Massimo.

Quella sera erano le 23 e 30 e io dissi “ragazzi è tempo di andare a dormire perché domani voi incominciate molto presto”. Quel pomeriggio, quando un fotografo sconosciuto scattò quella foto, guardavo quel baratro nero e mi ripetevo che quella sera la vita di Massimo e Silvio era già quasi finita».

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