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"Racconto il mondo globale con il caffè e la camicia di lino"

Lo stakanov della divulgazione: «In Etiopia sono caduto in un'imboscata e ho pensato: è finita. Ora sogno di andare nello spazio»

"Racconto il mondo globale con il caffè e la camicia di lino"

«Una volta a Houston ho parlato con Gene Kranz, l'uomo che ha fatto atterrare gli astronauti sulla Luna, e gli ho chiesto se gli astronauti di allora fossero diversi da quelli di oggi. E lui: No, assolutamente. Mi ha spiegato che è cambiata solo la testa: tutti, astronauti e tecnici, venivano dalla campagna, avevano studiato al college grazie a tanti sacrifici, quindi erano motivati; poi in campagna erano abituati a lavorare duro fin dal mattino presto e a risolvere i problemi in modo pratico. Ecco, così si arriva sulla Luna». Alberto Angela, che significa? «Ho pensato che anche il mondo romano fosse così, come le altre grandi civiltà del passato. Tutte costruite sul duro lavoro, l'impegno e la motivazione. Altrimenti oggi non avremmo i monumenti come la Colonna Traiana, o la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio». È così insomma, attraverso il «duro lavoro, a testa bassa» che Alberto Angela è diventato paleontologo, paleoantropologo, conduttore di programmi televisivi di grande successo (e longevità) come Ulisse e Passaggio a Nord Ovest, autore di libri sulla storia e sull'arte come Gli occhi della Gioconda, San Pietro, I tre giorni di Pompei (tutti pubblicati da Rizzoli), così amato dal pubblico da riuscire ad appassionare quasi sei milioni di spettatori per lo speciale Stanotte a San Pietro, pochi mesi fa. L'ultimo riconoscimento, in ordine di tempo, è il Premio èStoria per la divulgazione, che riceverà sabato a Gorizia, nell'ambito del Festival della Storia (dal 25 al 28 maggio).

Alberto Angela, su di lei circolano tante leggende.

«C'è di tutto, è vero».

Per esempio dicono abbia una passione per il caffè.

«Il caffè mi piace molto, però espresso. E il caffè è storia, fra l'altro. Sa perché la moka si chiama così?».

No, perché?

«Moka era il nome di un porto nel Mar Rosso, da cui provenivano i sacchi con i chicchi. Il caffè proviene dall'Etiopia, dove cresceva selvatico ed era usato dagli eremiti per non dormire: da lì nasce la diffusione nel mondo islamico, come rito. Poi arriva a Venezia, dove viene aperta la prima bottega. Prendi un caffè, e dietro c'è la storia».

È sempre stato così appassionato?

«Fin da piccolo. Penso che le avventure più belle si facciano nel passato, più che nel futuro. Vuole mettere scavare in Africa?».

Dove è stato in Africa?

«Nella Gola di Olduvai, dove ci sono i nostri antenati fino a due milioni di anni fa. È il fascino di trovarsi di fronte qualcuno da scoprire completamente, o di fare emergere uno strumento che, l'ultima volta, è stato usato 1,5 milioni di anni fa. Lo tocchi e si apre una finestra nel tempo».

E una volta aperta la finestra?

«Scopri che i protagonisti e i problemi sono simili a quelli di oggi. Per esempio nell'età romana c'è stata la prima grande globalizzazione: una tunica era fatta in lino, il quale era prodotto in Egitto, tessuto a Roma e venduto nelle Gallie. Proprio come le mie camicie oggi».

C'è dell'altro?

«Una volta ero a Mosca, perché il mio libro Una giornata nell'antica Roma era stato tradotto in russo. C'era la fila. Mi sono chiesto: perché i russi, così lontani da Roma e dal Colosseo, vogliono leggere questo libro?».

Risposta?

«La voglia di avere delle radici. Il nostro modo di vivere, come quello dei giapponesi, dei russi e degli americani ha le radici in quel mondo».

La divulgazione ha delle regole?

«Usare un linguaggio comune per concetti da storico, da archeologo. E uno stile da romanzo: mi pongo le domande della gente e cerco di rispondere. La storia è racconto, ci deve essere emozione».

Vale anche per l'arte?

«In un affresco, un bassorilievo o un monumento guardo i dettagli, in cui vedi lo stile di vita dell'epoca: i vestiti, le navi, le città, i porti. Ho uno sguardo da investigatore. Per esempio, nel caso della Gioconda osservo quello che c'è intorno: gli abiti, il paesaggio, la seggiola su cui è seduta, e alla quale nessuno bada mai».

Ha una laurea in Scienze naturali. È sia scienziato sia storico, come gli antichi?

«Ho un approccio razionale. Ma quando inizi a scavare il terreno dell'Africa e a fare riemergere una pagina sepolta è fantastico. Voglio unire la scienza allo spirito umano, all'emozione dell'intelletto».

In dieci anni di scavi ha avuto molte avventure.

«Tutti quelli che hanno fatto scavi hanno affrontato situazioni particolari. Ma non devi andartele a cercare, e lo sottolineo».

Particolari quanto?

«In Etiopia ci è capitato di finire in una imboscata, fatta per uccidere. Una situazione di tiro incrociato, con proiettili da tutte le parti. Gli aggressori pensavano fossimo di una fazione nemica».

Come è andata?

«Bene alla fine, ne siamo usciti illesi. Però quando ci hanno circondato mi sono detto: è finita, come facciamo? Quando hanno capito il malinteso, dopo qualche ora siamo usciti da quell'incubo. Eppure era una zona tranquilla, eravamo stati attenti».

Ha avuto anche incontri con animali pericolosi?

«Nella savana c'è di tutto: quando stai lì due o tre mesi a lavorare è diverso da un safari, è un luogo difficile. A parte i serpenti e gli scorpioni, succede di tutto: il mamba nell'accampamento, le formiche legionarie che entrano nella tenda, le iene che ti inseguono di notte, la carica degli ippopotami, il leopardo nascosto nel cespuglio... Cose che possono capitare, nella savana».

Come ci si comporta?

«La regola è: mai scappare. Se scappi sei finito. Anche in posti magnifici, come l'Oman, dal punto di vista del lavoro non puoi mai distrarti».

Che cosa è successo in Oman?

«C'era un sito antico di 30-35 milioni di anni, dovevamo setacciare sedimenti dai blocchi rocciosi. Il giorno successivo erano sempre pieni di scorpioni. È diverso dalle cartoline: in quei luoghi tutto punge, taglia e morde».

Ha girato il mondo per i suoi programmi. Il luogo più emozionante?

«Le rovine Khmer nella giungla del Sud-Est asiatico, le costruzioni Inca sulle Ande, l'Isola di Pasqua, Petra che sembra inventata da uno sceneggiatore, è meravigliosa. Ogni volta vedi la grandezza dell'uomo. E poi i deserti».

Perché le piacciono i deserti?

«Sono un libro di storia. Basta fermarti per scoprire qualcosa che l'uomo ha lasciato, un fortino, una città abbandonata. Rovine e silenzio. L'umanità: le date e i nomi li leggi sui libri, quello che non trovi è la vita quotidiana. Perciò faccio divulgazione».

Un posto speciale?

«Eh... L'Antartide è un luogo dove vedi il futuro, le basi su altri pianeti, e insieme il passato, come l'uomo sia riuscito a viaggiare in luoghi impossibili. Poi ho visto tante cose, dalle basi segrete sotto le montagne tipo 007 alla più grande tomba egizia, nella quale sono stato il primo a filmare con la mia troupe, fino alle immersioni in un antico relitto. Difficile dire quale mi abbia impressionato di più, però c'è una cosa».

Quale?

«Il mondo è pieno di cose belle, ma le più belle le ho viste da noi in Italia. All'estero c'è una sola cosa, meravigliosa, in Italia c'è tutto».

Per occuparsi di così tanti argomenti diversi quanto si prepara?

«Diciamo che ho poco tempo libero, ma anche dei collaboratori fantastici. Del resto, secondo lei Colombo e Darwin avevano tempo libero? A parte durante le traversate... L'entusiasmo della scoperta per me è h 24».

Perché ha così successo?

«Credo per due ragioni. Primo: usare un linguaggio universale, semplice, chiaro. Secondo: mettere dentro l'emozione, coinvolgere nella scoperta. Tutto si basa sull'empatia, e la tv è molto empatica: quindi, se parli di un vaso metti in evidenza l'aspetto umano, per esempio mostri l'impronta digitale del vasaio. Magari quell'impronta ha tremila e duecento anni».

Da piccolo guardava le trasmissioni di suo padre Piero Angela?

«Lo vedevo in tv, ma ce l'avevo in casa, ancora meglio».

Ha fatto molti viaggi con i suoi genitori?

«Sì, anche con le tende: l'Himalaya, le isole sperdute dell'Indonesia, le Ande, il Sud America. Era l'epoca in cui potevi trovare ancora cose intatte. Allora per arrivare in India un jumbo si fermava a Teheran e dovevi trascorrere lì la notte. Era tutto più lento. Non c'era l'aria condizionata, infatti oggi non ne ho bisogno...».

Da piccolo che cosa sognava di fare?

«Disegnavo uomini preistorici e dinosauri, come tutti i bambini. Però ho continuato».

Quali libri l'hanno influenzata?

«Uno è Amore e odio dell'etologo Eibl-Eibesfeldt: si vede come l'uomo abbia comportamenti innati, anche complessi, che esistono in tutte le culture. E poi ho sempre amato molto Il vecchio e il mare».

È vero che le piacciono i film di Clint Eastwood?

«Anche, ma non solo. Mi piacciono anche Harrison Ford, Charlton Heston, Anthony Hopkins. Guardo film d'azione, d'avventura, di fantascienza, comici».

E la tv la guarda?

«Poco, purtroppo. È vero. Guardo programmi di approfondimento».

Dopo diciotto anni e così dicono i conti circa duecento puntate di Ulisse, dove trova ancora spunti e stimoli?

«Chi ama la vela le direbbe: è vero, sono uscito sabato scorso, ma esco di nuovo. L'emozione di viaggiare con la mente non ha paragone».

Ora che cosa sta facendo?

«Sto preparando la nuova serie di Ulisse a Torino. Fra un mese cominceremo Passaggio a Nord Ovest e ho appena terminato Stanotte a Venezia, con la sua formula notturna, molto stancante. E alla fine della settimana andrò in Cina: I tre giorni di Pompei è stato tradotto in cinese e terrò una lectio».

C'è un'esperienza che vorrebbe fare?

«Tante. Potrei dire che vorrei andare nello spazio, ma non credo riuscirò. Ho mille sogni, vorrei andare dappertutto».

Non è già stato dappertutto?

«Certo, sono stato in tanti posti, ma luoghi come la Siberia o i deserti mi affascinano. E mi piacerebbe molto tornare ancora a Pompei, e raccontare altre cose. È una città fissata nel tempo».

Perché ha iniziato alla tv svizzera?

«Lavoravo presso il Centro di ricerca Ligabue di Venezia. Giravano documentari nei luoghi delle loro spedizioni e, durante uno scavo in Africa, mi avevano chiesto di fare un commento. Hanno visto che me la cavavo, quindi mi hanno chiesto: vuoi fare un programma? Così è nato Albatros».

E poi?

«Per me era una cosa in più, all'epoca facevo gli scavi. Poi TeleMontecarlo vide il programma, lo comprò e così mi trovai in onda in Italia. Da lì è iniziata la collaborazione con mio padre. E preciso che sono ancora un esterno, non sono dentro la Rai: faccio contratti, si spera ogni volta rinegoziati».

Di lei dicono: è credibile, colto, educato, avventuroso. È considerato addirittura un'icona.

«Sorrido. Poi vado avanti. L'importante per me è fare bene il mio lavoro».

A proposito della Gioconda ha raccontato che Leonardo era «fissato» con le mani e i gesti. Non è che ha preso da lui?

«No no, è casuale... Però noi italiani siamo noti per il gesticolare, è istintivo. Muovere le mani è la punteggiatura di quello che stai dicendo o pensando: vuole dire che c'è emozione, trasporto. Noi italiani siamo così».

Lei ha raggiunto una popolarità enorme, se l'aspettava?

«No, assolutamente. Sono partito senza guardare alla vetta, cercando di non fare errori. È un lungo percorso, iniziato anni fa: l'obiettivo era fare bene le cose, giorno per giorno».

Sente invidia intorno a sé?

«No. Non ne ho la percezione, anche se non me ne occupo molto. Faccio il mio».

Si annoia mai?

«Mai.

Non ho il tempo».

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