Il racket sul business dei vestiti usati

Gli indumenti messi nei cassonetti? Trasformati in stracci o rivenduti nei negozi vintage. Quasi mai vanno ai poveri

Il racket sul business dei vestiti usati

I cassonetti gialli si trovano ormai dappertutto, con la ribaltina anti-ladri e l’indicazione dell’ente caritatevole che periodicamente svuota il raccoglitore e ripulisce la coscienza di tanta gente. Il bottino sono quintali di abiti usati. Maglioni, giacche, gonne, cappotti, pantaloni, in buono stato ma non necessariamente, firmati o no, vengono chiusi in sacchi destinati ai poveri, o almeno così si crede. In realtà, ai bisognosi arriva una minima parte degli indumenti gettati da chi ha il guardaroba che scoppia. Il resto alimenta un traffico pieno di lati oscuri.
Pietro Manzoni, presidente della cooperativa sociale intitolata a padre Daniele Badiali (missionario romagnolo rapito e ucciso in Perù) di Cisano Bergamasco, lo ammette candidamente: «Non accade quasi mai che i vestiti usati passino direttamente ai poveri, sono un veicolo per ricavare denaro e finanziare progetti umanitari». La coop lombarda lavora in numerose località della zona per conto della Caritas, che mette il nome, il logo e la consulenza, mentre alla Badiali spetta il lavoro manuale. «Raccogliamo un milione di vestiti l'anno, dando lavoro a ragazzi problematici, ex carcerati, disabili», spiega Manzoni. Nel 2008 sono stati ammassati 10.553 chili di indumenti. Una parte finisce a una ditta di Prato con cui è stato firmato un protocollo etico «per impedire che gli stracci finiscano in mano alla malavita organizzata». Il resto viene ritirato da una ditta che li trasforma in stracci industriali o rivende i capi meglio conservati ai mercatini dell'usato o ai negozi specializzati in moda vintage, quella del passato. Il ricavato viene diviso tra la coop e la Caritas.
Passaggi di mano, trasformazione, rivendita, riciclo: quello degli abiti di seconda mano è un vero mercato parallelo. Secondo i dati del Consorzio nazionale abiti usati (Conau), nel 2006 la raccolta differenziata del settore tessile è stata pari a 70mila tonnellate di cui il 68 per cento riutilizzato, il 25 riciclato e il 7 per cento smaltito. Un mercato in crescita e poco controllato, che genera un cospicuo giro di denaro che solo in parte finisce alla beneficenza mentre attira gli appetiti delle organizzazioni mafiose. Ne sa qualcosa Carlo De Angelis, presidente della cooperativa romana Apemaia che da quando ha avviato la raccolta degli stracci ha subito tre attentati incendiari. «A Roma ci sono appena mille cassonetti, ognuno dei quali raccoglie in media una tonnellata di abiti l'anno. I sospetti degli inquirenti sono chiari: questo mercato è allettante, fa gola a molti».
Anche Apemaia destina ai bisognosi una quota minoritaria dell’abbigliamento usato, e lo fa attraverso la Caritas o il Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza, cui la coop aderisce. «I vestiti tenuti meglio vengono rivenduti a piccoli negozianti dell'usato, gli altri finiscono a ditte che ne fanno pezzame industriale per le grandi officine meccaniche oppure li riciclano per recuperare i tessuti. Noi raccogliamo anche mobili e altri oggetti - aggiunge De Angelis - che vengono rivenduti o affittati a teatri o produzioni cinematografiche che devono ricostruire ambientazioni d'epoca. Il ricavato va a finanziare la nostra attività e i progetti di recupero».
Ma gli incendi intimidatori dimostrano l’attenzione della criminalità per questo settore. Già nel 1999 il magistrato Donato Ceglie, sostituto alla procura di Santa Maria Capua Vetere, aveva scoperto un traffico clandestino riconducibile alla camorra: erano gli anni dei conflitti nei Balcani, la macchina della solidarietà internazionale era in pieno fermento, le raccolte di indumenti usati si moltiplicavano, e i boss napoletani avevano truccato i sacchi della Caritas impadronendosi di quintali di vestiti. «Le associazioni di volontariato non commettono reati - dichiarò allora il pm Ceglie -, ma appaltando la raccolta degli stracci alimentano un giro d'affari spesso illegale, che finanzia la malavita».
«Sappiamo che il commercio illegale di abiti usati serve a riciclare denaro sporco attraverso la vendita dei capi migliori in negozi o mercatini - spiega De Angelis -, ma gli stracci vengono anche imbevuti di liquidi pericolosi e dati alle fiamme per eliminare le tracce del traffico illecito di rifiuti».
Assieme alla Caritas, l'organizzazione più attiva in Italia è l'associazione Humana, che dispone di 2.800 contenitori in 500 comuni di 35 province. Questa coop è una multinazionale del riciclo nata in Danimarca e diffusa in mezzo mondo. Di recente ha aperto a Milano un negozio di abiti vintage a pochi passi dal Duomo: lo chiamano «shopping solidale», fino al 29 agosto la merce è in saldo. All'estero, la Ong è molto chiacchierata: l'attività caritatevole maschererebbe una rete di società offshore, e si baserebbe sullo sfruttamento di migliaia di giovani volontari. Il fondatore, l'ex maestro danese Amdi Petersen, avrebbe sottratto 25 milioni di dollari all’organizzazione.

Fuggì in California dove fu arrestato dall’Interpol ed estradato. Lo scorso giugno il Land tedesco della Renania-Palatinato ha imposto a Humana di togliere la scritta «a scopo di carità» dalle fiancate dei cassonetti. Raccogliere abiti usati rimane lecito, l’ipocrisia no.

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