Il regno della letteratura è dominio degli Absburgo

Lernet-Holenia, Perutz, Rilke e gli altri. In libreria torna la Mitteleuropa. E la nostalgia impera...

Il regno della letteratura è dominio degli Absburgo

Ci viene comodo partire dalla fine. Perché di finis Austriae parliamo, struggente e inevitabile pendant dell'Austria felix. Ci viene comodo partire dalla fine, cioè dall'oggi, per dare conto di un multiforme, costante, carsico e fervido fenomeno editoriale: la rinascita dell'Impero austro-ungarico, o per meglio dire della «nostalgia» del suddetto impero, ma una nostalgia non passatista, bensì custode e ammiratrice di quello che Stefan Zweig chiamò Il mondo di ieri. Rinascita che si alimenta da un lato grazie alla forza di autori grandissimi, dall'altro grazie alla benemerita fame di vera letteratura, dove per letteratura s'intendano stile, sensibilità e invenzione filtrati dall'occhio attento della Storia.

Ed ecco qua, disponibile fra non molto nelle librerie per Adelphi, casa editrice che in tema di Mitteleuropa merita lo sguardo ammirato dell'aquila bicipite, Due Sicilie, di Alexander Lernet-Holenia (1897 - 1976). Siamo nel 1925, e le vicende di un colonnello del reggimento chiamato appunto «Due Sicilie» e dei suoi ufficiali, reduci della guerra mondiale che ha posto fine all'Impero, vanno ben oltre la trama «gialla», vestendosi anche del «nero», cioè dell'agonia del colosso absburgico. Datato 1942, il romanzo è, dopo Lo stendardo del 1934, la seconda opera di Lernet-Holenia dedicata all'estrema propaggine di quella che lo storico Heinrich von Srbik considerava il modello di una futura Europa. Diremmo noi, di un'Unione europea più solida e meno invadente. Perché «Dall'umanità alla bestialità attraverso la nazionalità, aveva detto il poeta austriaco Grillparzer», scriveva Joseph Roth in Il busto dell'imperatore, citando il capostipite di quello che Claudio Magris definiva «il mito absburgico». Qui sta il punto: furono i nazionalismi a minare la stabilità del gigante che andava da Merano a Lwow, da Praga a Dubrovnik. Non che quel gigante fosse un fulgido esempio di liberalismo, ma si distingueva sia dagli Stati tedeschi, sia dall'autocrazia zarista, nel dare al proprio suddito, in cambio di un formale e fideistico «sacrificio di sé», «molta sicura pace e il senso di una religiosa armonia, e lasciando espandere la sua individualità unicamente nella sfera della fantasia e del piacere, nella sfera musicale insomma della sua anima» (Magris).

Ecco, in tema di fantasia affabulatoria, e sempre entro i confini imperiali, a dare manforte a Lernet-Holenia c'è Leo Perutz (1882 - 1957), del quale le Edizioni E/O hanno da poco ripubblicato, nella collana «Gli Intramontabili», Di notte sotto il ponte di pietra. Questa volta ci troviamo nella Praga del XVI secolo, sotto Rodolfo II, arroccato nel suo castello e circondato da alchimisti, astrologi, pittori, servitori e truffatori. Siamo quindi agli albori della potenza absburgica, dove la penna caleidoscopica dell'autore inscena il «duello» fra il sovrano cristiano e l'ebreo Mordechai Meisl, il quale alimenta con il suo denaro la sfarzosa ed eccentrica corte. Perutz è una sorta di Salgari praghese: La terza pallottola, Dalle nove alle nove, Tempo di spettri, Il cavaliere svedese e molti altri libri si muovono in lungo e in largo nello spazio e nel tempo, dipingendo quadri in cui la nota dominante è l'identità perduta o mistificata dei protagonisti.

Il suo concittadino Rainer Maria Rilke (1875 - 1926), invece, nei Racconti usciti da Guanda sul finire dell'anno scorso e datati a cavallo tra Otto e Novecento sceglie, da poeta, la strada opposta, quella del ritratto psicologico: eteree e malaticce fanciulle incrociano i cuori con gaudenti giovanotti, anziani seduti sulle panchine del parco si gustano i rimasugli di vita, i colori della natura in primavera battagliano con le nebbie invernali. È, declinata in forma di bozzetto, di improvvisi per penna e calamaio, parafrasando Giorgio Manganelli, il trionfo di quel decadentismo tanto caro al già citato Roth, in particolare alla saga dei von Trotta (La marcia di Radetzky e La cripta dei cappuccini), insieme testimoni oculari e personaggi nella Vienna di Cecco Beppe. Un decadentismo che i ben noti incubi di Kafka hanno sublimato in chiave metafisica.

Ma nelle lettere dell'Impero austro-ungarico fra XIX e XX secolo troviamo, periodicamente riemergenti fra gli scaffali delle nostre librerie, tutti i registri compositivi. Il piccolo mondo antico dell'ispettore scolastico Adalbert Stifter, cantore della selva boema, duetta con i fulminanti aforismi di Peter Altenberg; il decoro borghese psicanalizzato dal medico Arthur Schnitzler fa da contraltare all'amara ironia di Alfred Polgar e alla corrosiva denuncia del quieto vivere di Karl Kraus; le braci postume che covano sotto la cenere di Sándor Márai, l'ultimo erede, in ordine di tempo, della scenografia imperial-regia, illuminano di riflesso l'umorismo da birreria di Ignaz Franz Castelli e la crudezza moraleggiante con cui Marie von Ebner-Eschenbach bacchetta la provinciale nobiltà morava. E se da un lato la Cacania di Robert Musil (ka und ka, imperiale e regia) ha prodotto L'uomo senza qualità, ovvero una nietzschiana filosofia della dissoluzione, dall'altro senza accorgersene, travolgendolo con un'alluvione di rimpianti, ha anche generato la dolente umanità che per il triestino Italo Svevo fa rima con Senilità.

«Io sono un poeta delle cose ultime», scriveva Franz Grillparzer quando altre «cose ultime» erano ancora di là da venire. «Gli stati invecchiati si ammalano di ricordi», scrisse anche. Lo affermava con rammarico, volgendosi indietro nel tempo.

Ma è un fatto che questa malattia absburgica del ricordo sia servita da miracoloso tonico per le Lettere di molti Paesi. E che ancora oggi sappia tirare un po' su il morale di molti lettori per i quali la finis Austriae può essere un inizio.

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