Milano - Poco più di cent’anni fa Giacomo Puccini prese un dramma di Victorien Sardou, lo fece riscrivere da Illica e Giacosa e gli confezionò un prezioso abito musicale. Nacque così Tosca, che oggi Lucio Dalla ha rivisitato completamente, ne ha curato la regia e l’ha portata in giro in tutto il mondo (persino a Torre del Lago, la «tana» di Puccini) con immenso successo. Tosca di Dalla arriva domani, fino al 22 novembre, agli Arcimboldi (ore 21, www.teatroarcimboldi.it) con l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali, diretta da Beppe D’Onghia, con le coreografie di Daniel Ezralow, i costumi di Giorgio Armani e la produzione di David Zard, nonché la debordante creatività di Dalla, che tra l’altro ha appena pubblicato il cd pop Angoli nel cielo. «È il mio miglior disco e Tosca sarà esplosiva perché non è mai uguale; ogni volta porto qualche variazione melodica e i cantanti migliorano come il vino nelle botti».
Ha vinto anche la sfida in casa di Puccini, ormai non teme più nulla.
«L’esperienza mi insegna che bisogna sempre dare il massimo per creare interesse nel pubblico. Milano è una piazza importante che fa tremare i polsi; ma finora è andata bene ovunque, questo spettacolo ha venduto 400mila biglietti. Tosca e il melodramma in generale sono la musica pop di quell’epoca e io mi impegno a renderla attuale».
Come è nato l’amore per Tosca.
«Una predestinazione. A 7 anni fui invitato da Gianni Schicchi a cantare Puccini col mio “vocione” infantile ma da tenore. Da allora non ho più smesso di amarlo e celebrarlo».
E i puristi cosa dicono?
«Li rispetto, anch’io sono un purista ma odio chi viaggia con i paraocchi, alzando steccati e senza vedere lo scorrere del tempo. C’è gente che si ammanta di un rigore fasullo e non richiesto, che vorrebbe cristallizzare le cose e si scandalizza se io o Franco Battiato ci avviciniamo a temi classici. La musica vive di contaminazione tra elementi colti e leggeri».
Puccini in particolare.
«Certo, siamo circondati dal “puccinismo”; nel genio di Puccini c’è tutto. Lui è meravigliosamente sinfonico ma anche pop. Bisogna calarsi nel contesto storico; Bach suonava anche in quelli che erano i pianobar dell’epoca e Mozart si esibiva nelle osterie».
E lei non perde il gusto della provocazione.
«Sì ma amo la tradizione. Ho curato la regia dell’Arlecchino di Busoni e ho riletto opere di Stravinskij pensando però che sia inutile rileggere pedissequamente il passato. Questo è anche lo spirito che anima Tosca. Non l’ho stravolta ma rimodernata nel testo, nelle arie, nei recitativi, usando la libertà che la canzone vieta perché è schiava della tempistica. Quest’opera raccoglie tutti gli archetipi dell’animo umano, la stupidità, l’amore, la passione, la gelosia, l’arroganza».
Un modo strano per amare la tradizione?
«La tradizione senza novità è ripetizione. Amo Accardo che va in Venezuela e fonda un’orchestra di giovani o Muti che forma una grande compagine di ragazzi, poco più che bambini, che sono dei prodigi. La musica classica deve scendere dalla torre d’avorio».
In che modo?
«Vivendo tra la gente; sa cosa mi ha emozionato? In Gran Bretagna allo stadio vidi una partita del Celtic e decine di migliaia di tifosi all’inizio del match intonarono l’aria del Vincerò della Turandot».
E Dalla come si definisce?
«Come un transfert, una canna al vento che assorbe tutto. Quel poco che so fare viene dal cielo. Non conosco la musica eppure riscrivo Stravinskij e Tosca. Non è un miracolo».
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