La rivolta contro le tasse che insanguinò Milano

Giuseppe Prina era l'uomo di Bonaparte. Portò allo stremo la città e nel 1814 la pagò cara Anche oggi i balzelli possono passare il limite. E la storia ci dice che si rischia grosso

La rivolta contro le tasse che insanguinò Milano

Il finale è atroce. Perché quando la rabbia del popolo è stata a lungo compressa e, poi, si scatena su una singola persona l'efferatezza è praticamente inevitabile. E quindi in questa faccenda forse è giusto partire proprio dal finale. Nell'aprile del 1814 era ormai chiaro che il regime napoleonico volgeva al tramonto. Se ne stavano rendendo conto anche a Milano, capitale dell'effimero Regno Italico nato all'ombra dell'aquila imperiale. Tutti, dai filofrancesi ai filoaustriaci, si mobilitarono per trovare un nuovo assetto. Magari (utopia!) indipendente. I filofrancesi, capeggiati da Francesco Melzi d'Eril, avrebbero voluto affidare il regno a Eugenio di Beauharnais e convocarono una riunione del Senato per il 20 aprile. In quella mattina piovosa, fuori dal palazzo del Senato, che allora si affacciava sui navigli, si radunò una folla inferocita che brandiva gli ombrelli come fossero mazze. C'erano ombrelli di seta, di nobili e borghesi, e ombrelli di molto più vile cotone, agitati dal popolo minuto, artigiani e operai angariati dalle tasse.

Fu subito chiaro che tirava una brutta aria. La riunione venne sospesa. Di restare nell'orbita francese non si parlò più. Nel frattempo la folla penetrò in Senato, devastando l'aula. I senatori si diedero alla fuga in carrozza. Stando ben attenti a non mostrarsi ai finestrini, soprattutto i più vicini alla Francia. Ma alla fine il popolo aveva già identificato un bersaglio univoco: il ministro Giuseppe Prina, responsabile del dicastero delle finanze. In Senato non c'era. Puntarono allora a casa sua. Casa in cui pensavano di trovare enormi ricchezze trafugate. L'unica spiegazione che potevano darsi per imposte, come quelle sulla carta bollata, che avevano messo in ginocchio l'economia dei territori italiani satelliti della Francia. Arrivarono a palazzo Sannazzari, in piazza San Fedele, dove Prina risiedeva, e diedero l'assalto. Devastarono stanza per stanza senza trovarlo, levarono addirittura le tegole dal tetto nella foga di scovare lui o almeno il maltolto (se c'era, non era a palazzo). Poi, in una soffitta, finalmente qualcuno gridò «è trovato, è trovato». Lo estrassero dall'interno della cappa fumaria del camino nel quale si era nascosto, travestito da prete.

Cento mani gli strappano l'abito talare, cento mani lo percuotono, lo trascinano, lo gettano da una finestra dei piani inferiori. Per la strada è sottoposto a una tempesta di colpi d'ombrello. Qualcuno è mosso a pietà, interviene, lo strappa alla folla inferocita che lo ha già trascinato sino in via Case Rotte. Un coraggioso vinaio (a Milano i vinai erano uomini d'ordine e spesso facevano parte delle varie guardie civiche, in cambio di qualche esenzione dal dazio) lo accoglie nella sua casa-bottega. Non basta a calmare gli animi, c'è chi minaccia di incendiare la bottega. Da dentro cedono, la porta si apre, trovano Prina seminascosto dietro un tino. «Subito ebbe fracassata la testa, vuotata un'occhiaia, sfiancate le reni, finché spirò». Poi il corpo viene trascinato per ore per le strade verso il Cordusio. Qualcuno gli ficca in bocca un pezzo di carta: «Toh, mangia la carta bollata con cui ci hai succhiato il sangue».

Fu uno spettacolo terrificante a cui assistette in prima persona anche il giovane Alessandro Manzoni, allora ventinovenne. Secondo la moglie, per lungo tempo gli provocò orribili sogni. Di certo ispirò la sua descrizione dei tumulti contro il vicario di Provvisione nei Promessi sposi . Ma non solo letteratura, ancora oggi a Milano «fare la fine del Prina» è un'espressione idiomatica che indica cose poco carine.

Ma, al di là della pietà umana che resta verso il piemontese trasferito a Milano - e che a Napoleone avevano presentato così: «Ingegno prontissimo, vista estesa, moltissimi lumi teorici e pratici, caratterialmente deciso e superiormente fatto per governare subalterni...» -, che cosa si può imparare da questa vicenda? Probabilmente che esiste una soglia di tassazione oltre la quale anche il popolo più mite si trasforma in belva. Sul tema fa un'analisi serratissima e documentatissima Romano Bracalini in Prina deve Morire. Milano 1814. La prima rivolta antitasse in Italia (Libreria San Giorgio, pagg. 86, euro 12). Il saggio illustra bene sogni e speranze che le armate repubblicane fecero sorgere in Italia al loro arrivo.

Liberté , Égalité , Fraternité erano temi che gli italiani capivano bene, almeno quel pezzo di società che aveva subito l'influenza del pensiero dei lumi. Ma ci volle poco a far sì che quelle speranze mutassero in disaffezione prima e in rabbia poi. Dove mettevano piede le armate francesi il saccheggio era garantito. Le richieste economiche erano sempre esorbitanti; se sotto l'Austria mancava la libertà, sotto la Francia iniziò a mancare il pane. Il solo Napoleone, una volta instaurato il regno, si riservava sei milioni di lire d'appannaggio. Il vicerè, Eugenio di Beauharnais, mise in piedi una corte fastosissima. Ma già prima la situazione era diventata molto pesante. In sei anni, dal 1796 al 1802, la tassazione, come spiega Bracalini, era passata dal 28 al 48 per cento. Il 10 settembre 1802, poi, Prina introduceva anche la sua sopracitata «tassa sul bollo della carta». Praticamente gravava su qualsiasi tipo di atto e di scrittura professionale. «Colpiva soprattutto il ceto medio produttivo».

Nel 1803 il costo dell'armata francese pagato dagli italiani era salito a 25.458.750 lire, mentre l'esercito italiano costava solo 3.900.000 lire. Insomma, il rischio default , come si direbbe oggi, era alle porte. E in più gli italiani avevano chiaro che stavano andando in bancarotta per pagare guerre altrui. Dovevano ammetterlo anche pubblici ufficiali filo-francesi come Melzi d'Eril: «Ossia è una verità incontestabile che le somme versate dall'Italia alle diverse armate francesi sono state più che doppie dei loro reali e veri bisogni». Idee sintetizzate in maniera mirabile da un paio di versi di una canzoncina molto popolare ai tempi di Carlo Porta: «Liberté, égalité, fraternité,/ I fransé in carozza, i milanes a pè». Anche il certamente fedele Melzi d'Eril era arrivato a segnalare direttamente a Napoleone che gli italiani accettavano di buon grado il passaggio da repubblica a monarchia, ma che avrebbero voluto funzionari italiani e la cessazione dei sussidi forzosi per l'armata francese, «non avendo ancora sentito il vantaggio della loro emancipazione che per un aumento d'imposte». Abbastanza per mandare l'Imperatore su tutte le furie: «E non è giusto che gli italiani paghino almeno in parte l'esercito che versa il sangue per loro?». Una risposta che non teneva conto di tutti gli italiani finiti nelle fosse di mezza Europa combattendo sotto le sue bandiere.

Di tutto questo non si avvide o non volle avvedersi Prina. Puntuale, precisissimo, di lui si diceva che si facesse stirare anche le mutande, non oppose mai un rifiuto a Parigi. Anzi... Di certo in piena crisi dell'economia lombarda i ministri avevano pensato bene di aumentare il loro trattamento da 25mila a 50mila lire e lui quanto meno lasciò fare. Lo stesso con la corte vicereale. Né si pose mai il dubbio che le sue lussuose ville aumentavano il pubblico odio. Per il resto era un uomo che sulla finanza aveva anche idee innovative. Fu lui a istituire il Monte Napoleone facendone un istituto finanziario qualificato anche all'emissione di «buoni del Tesoro», per quei tempi una novità assoluta. Parte di quei soldi che dragava finivano nelle sue tasche? Difficile dirlo. Era stato accusato di aver manomesso i libri contabili anche anni prima, quando era al servizio del Re di Sardegna. Ma almeno in quel caso nessuno poté provarlo. I milanesi non si presero il lusso di un processo. Si limitarono a dare corpo a quello che già avevano minacciato con le scritte sui muri: «Prina, Prina, il giorno si avvicina». E del resto esistono anche colpe politiche. Non capire quando una tassazione si trasforma in un capestro lo è. E Prina riuscì a causare la prima vera (e per ora ultima) rivolta fiscale italiana finita nel sangue di un ministro (di norma finiscono nel sangue dei tassati).

Ma molti

politici e storici di lui preferiscono non ricordarsi. O far finta che tutto sia avvenuto solo per colpa del popolo impazzito. Milano gli ha anche dedicato una via “riparatrice”. Ma i cittadini del 1814 avrebbero da ridire.

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