Chissà perché, per molti la domanda è maliziosa. E infatti se la fanno scivolare addosso. Abbiamo chiesto agli scrittori italiani quanto guadagnano. Non a chi ha scritto un solo libro, magari un po per caso. A chi scrive sistematicamente e pubblica con continuità. E va bene che parlare di soldi non è fine, forse è addirittura ineducato. Ma per una volta volevamo affrontare una questione concreta, sapendo che non manca di addentellati metafisici.
Cè chi non ha nessun problema a dirlo: io guadagno tot. Tanto? Poco? È tutto relativo. Il panorama della scrittura italiana è più affollato di un bar del centro allora di punta, in parecchi urlano e sgomitano e cè la coda per chi vuole ancora entrare. Ma che di scrittura non si campi, è evidente. Quasi tutti gli autori di libri, anche se in attività da parecchi anni, svolgono altri mestieri, non necessariamente legati alla scrittura. Cè chi fa la guardia giurata (Vincenzo Pardini), chi il poliziotto (Maurizio Matrone), chi il bagnino, ancorché di lusso (Marco Buticchi), chi il magistrato (Gianrico Carofiglio), chi la pensionata dallinsegnamento (Margherita Oggero). Tullio Avoledo è un funzionario di banca, a Pordenone, ed è riuscito nella fortunata operazione di sfornare un bestseller desordio (Lelenco telefonico di Atlantide). «Mi sento arricchito - dice - ma solo in senso artistico».
E stiamo parlando di un autore da 30-40mila copie vendute, quando la media nazionale è drammaticamente più bassa. In base a una ventina di testimonianze (a quel punto le risposte cominciavano ad assomigliarsi tutte) ci siamo confermati nellidea che per un autore italiano vendere 10mila copie di un libro, entro un paio danni dalluscita, sia già un ottimo risultato. Che le direzioni editoriali tacessero, su questo argomento, ce lo aspettavamo. Possiamo anche capirne le ragioni: non si vuole fomentare linvidia tra autori, tra chi riceve anticipi più alti, perché le aspettative di vendita sono maggiori, e chi si deve accontentare di anticipi standard. Nessuno ci potrà smentire se sospettiamo però che a un autore sulla cresta dellonda commerciale come Federico Moccia probabilmente vengano corrisposti anticipi succulenti. Da viverci insomma. «Io distinguerei in tre categorie», spiega lagente letterario Marco Vigevani. «Quelli che possono vivere dei proventi dei propri libri sono pochissimi; tre esempi: Moccia, Giorgio Faletti, Luciana Littizzetto. Poi ci sono gli autori di successo, quelli che vendono dalle 25mila alle 100mila copie, che costituiscono il nerbo economico delle case editrici, la loro struttura portante. Sono comunque pochi e spesso devono integrare il proprio reddito con unaltra entrata. Per i restanti, la scrittura è solo uno fra gli altri redditi».
Gianni Biondillo ha detto che con la scrittura «ci paga laffitto». A Milano, oltretutto, perciò può dirsi fortunato. Enrico Brizzi, di Bologna, ha detto di averne fatta unattività esclusiva (o quasi), ma deve molto al suo straordinario esordio, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, del 1994, sempre ristampato. Molti eludono la domanda. Secondo Giuseppe Scaraffia «è perché temiamo tutti di essere pagati troppo o troppo poco. Vivere di scrittura è impossibile, è una barzelletta. La scrittura è un hobby costoso. E allora ci si mantiene con il giornalismo o linsegnamento universitario, come nel mio caso. Io come ricercatore prendo 2.500 euro al mese. Poi ci sono altri espedienti: per esempio scrivere e farsi pagare in nero libri altrui, di attrici e di signore raffinate».
Insomma, se è un miraggio il vivere di soli libri, è comunque un privilegio anche il vivere di scrittura in senso lato, anche arrotondando, come spesso avviene, con lattività di traduttore o di collaboratore di case editrici. «Giornalismo e libri sono due insufficienze che, sommate, possono produrre una sufficienza», chiosa Camillo Langone, forse lunico scrittore italiano a pubblicare i suoi libri a puntate, in anticipo, sul Foglio, secondo lo schema ottocentesco del feuilleton. I «non so» e «non rispondo» si alternano a risposte chiare e dirette: «Poco o nulla», sostiene da Napoli il critico Silvio Perrella. Che però invita a tener conto di «altre articolazioni». «Con i libri in sé non si guadagna nulla, tanto più se si pubblica con piccoli editori», spiega Tommaso Labranca. «Se uno però sa gestirsi, guadagna con lindotto; io per esempio lavoro come autore televisivo e conduttore radiofonico. Con i libri, 5mila copie vendute sono un successo».
Qui va precisato che il guadagno di un autore è mediamente del 10 per cento lordo sul prezzo di copertina. Chi ama i calcoli, da ciò può dedurre molto. I cinque scrittori che si firmano col nome collettivo Wu Ming, pubblicati da Einaudi, si sono divertiti a dichiarare il numero di copie vendute. Un loro bestseller ha totalizzato 107mila copie in 69 mesi, ma avranno dovuto dividere i proventi. Dell«indotto» fanno parte anche le eventuali cessioni dei diritti cinematografici o televisivi, peraltro rare (i diritti di opzione vengono pagati in media 2 o 3mila euro). Margherita Oggero, dal cui romanzo La collega tatuata è stato tratto il film Se devo essere sincera, sceneggiato e interpretato da Luciana Littizzetto, ammette di potersi permettere «qualche ristorante e qualche ora della colf in più. E non devo più nascondere le calze bucate. Ma in questo lavoro non si ha la certezza che lanno futuro sia buono come il precedente».
Proprio così. Molte speranze, qualche bella soddisfazione, ma poche certezze. Sostiene Marco Franzoso (pubblicitario): «Il reddito dei miei libri si aggira intorno al 5 per cento dei miei guadagni complessivi. Una miseria. Però il mio ultimo romanzo ha avuto una riduzione teatrale, messa in scena a Venezia». La gloria, dunque, è un discreto compenso alla penuria. «La scrittura è un atto di libertà», afferma Nicoletta Vallorani (docente universitaria) autrice prolifica di narrativa, dalla fantascienza ai libri per ragazzi.
Alla faccia delle furbastre strategie di marketing, che sono il mestiere degli editori.
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