Nei film di fantascienza c'è sempre un personaggio invisibile. Non lo vediamo, ma ne avvertiamo la presenza, come sensitivi, come prede che si nascondono dal predatore. Tanto da percepirlo come il vero protagonista, se non addirittura l'aiuto-regista. È la nostra paura di essere sorpassati, in termini di intelligenza e quindi di tecnologia, dagli alieni. Il genocidio, la strage degli innocenti, la deportazione, la pulizia etnica sono cose da umani. Sono orrori, ma orrori cui siamo abituati da centinaia di migliaia di anni: li portiamo scritti nel sangue. No, il vero orrore, oggi (diciamo da una cinquantina d'anni), è perdere il primato della conoscenza, il monopolio sull'utilizzazione del mondo. Le meraviglie della robotica, e ancor più la realizzazione, che ha del miracoloso, del fantascientifico, appunto, di computer sempre più sofisticati e dotati quasi di facoltà raziocinanti, ha ovviamente aggravato la situazione.
L'unico modo per ridimensionare il problema, per istillarci un tarlo, questa volta positivo, del dubbio, è chiederci: ma a tutti questi marziani, calcolatori e ferraglia assortita interesserà davvero mettersi in competizione con noi? Non sarà che stiamo cadendo, per l'ennesima volta, nel nostro solito errore, cioè nell'antropocentrismo? Quando il vecchio Protagora diceva che «l'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono», ci dava un'infallibile chiave di lettura: tutto dipende da noi, dunque cerchiamo di non esagerare... Però quando Philip K. Dick intitolava il più cinematograficamente fertile dei suoi romanzi Ma gli androidi sognano pecore elettriche? mostrava anch'egli di restare ancorato al canovaccio del «misura di tutte le cose etc etc».
Invece, Stanislaw Lem no. Il polacco Stanislaw Lem (1921-2006) era dotato di una penna agilissima e di una mente finissima. Talmente fine da far sorgere, nel 1974, proprio in Dick (magari aiutato da qualche sostanza leggermente più pesante del vinello californiano...) il sospetto che non fosse un uomo in carne e ossa, bensì il nome di un progetto sovietico finalizzato a traviare gli americani. La produzione fantascientifica di Lem è vastissima, basti citare Solaris, Memorie di un viaggiatore spaziale, L'indagine. Ma soprattutto è filosofia applicata alla fantascienza. E una filosofia non certo rudimentale come quella del pur benemerito Protagora.
Ce lo conferma in Golem XIV (Editrice il Sirente). Golem è un nome leggendario, risale alla mitologia ebraica, significa «materia grezza», «embrione», ma nel romanzo di Lem, datato 1981, è l'acronimo di General Operator, Longrange, Ethically stabilized, Multimodelling: una macchina di ultimissima generazione messa a punto nel 2019. Il punto nodale è proprio la sua superintelligenza. Che lo porta a fregarsene dei dettami del Pentagono presso il quale presta servizio, quindi a essere ben presto confinato nella prigione dorata del Mit di Boston. Possiamo sprecare una risorsa simile? si chiedono all'unisono i professoroni che lo hanno in carico e l'opinione pubblica. La risposta è «no». Quindi per Golem XIV incomincia una seconda vita, quella del conferenziere. Ve la spiego io, cari uomini, la vita e la non vita, l'origine del linguaggio e il difetto di fabbrica dell'Evoluzione, la ragione di fondo del vostro errore di prospettiva, cioè ritenere l'Intelligenza un pregio e non una dannazione.
Golem XIV sembra un incrocio fra Carmelo Bene e Massimo Cacciari, ma se lo seguiamo come merita ci fa capire tante cose. Di noi, più che di lui.
Anche se il prof Creve, suo mentore, fa riferimento a una simpatia del Nostro nei confronti di un altro modello di supercomputer, chiamato Honest Annie, «Anna la candida». Ci piacerebbe pensare a qualcosa di simile a Irma la dolce... Ma cadremmo nel nostro solito errore.
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