«La prima che ho scelto è la tastiera, perché la sua storia racconta qualcosa a cui non si pensa: innovare non è solo fare qualcosa di nuovo, richiede un rapporto con la tradizione». Quindi la tastiera, appunto, è la prima delle «innovazioni che hanno cambiato la nostra vita» di cui parla Massimiano Bucchi (professore di Scienza, tecnologia e società all'Università di Trento) nel suo libro Per un pugno di idee, da poco pubblicato da Bompiani (pagg. 359, euro 13).
Che cosa c'entra la tastiera con la tradizione?
«La tastiera ricalca uno dei primi modelli di macchina per scrivere. Lo inventò un giornalista, era il 1868: fece questo prototipo per scrivere più velocemente e all'inizio lo impostò come avremmo fatto tutti, con le lettere in ordine alfabetico».
Non andava bene?
«No, perché battendo rapidamente sui tasti le lettere si accavallavano. Allora disegnò una disposizione su tre livelli, con una sequenza che minimizzasse le possibilità di scontro. Ed è quella che ancora abbiamo sulla tastiera perché, ormai, l'abbiamo memorizzata tutti».
Altre innovazioni però rompono decisamente con il passato.
«Creano abitudini nuove. Per esempio l'audiocassetta, che è collegata a un'altra innovazione, il walkman: la prima ha portato la musica ovunque, anche nei Paesi più sperduti e ha permesso di creare le prime compilation, le antenate delle playlist; il secondo ha introdotto un modo nuovo di ascoltare la musica e una abitudine come la condivisione».
Con le cuffie «a metà»?
«Certo, si ricorda Il tempo delle mele? E ha inaugurato il multitasking: ascolti la musica in giro, facendo altro. Poi ci sono innovazioni grandiose che nascono grazie all'imitazione, anziché all'originalità».
Ci sono invenzioni non originali?
«Innanzitutto, l'innovazione è più di un'invenzione: fra le tante, potenziali invenzioni, ogni tanto qualcuna incontra un cambiamento epocale. È il caso della Moka, la caffettiera inventata da Alfonso Bialetti nel 1933 e, da allora, praticamente mai modificata. Un simbolo di italianità, esposto anche al Moma di New York».
E non è originale?
«Bialetti voleva creare uno strumento per fare il caffè che tutti potessero utilizzare facilmente, a differenza della napoletana. Ed ebbe l'idea osservando le lavandaie che facevano percolare la lisciva... insomma, per imitazione».
Fu subito un successo enorme. Come mai?
«Ci sono innovazioni che vengono accolte subito dai consumatori, come la Moka. In altri casi accade il contrario: la tecnologia è disponibile, ma la società non la usa, non è ancora pronta al cambiamento che comporta. Come la cintura di sicurezza».
Quando è nata?
«Fu brevettata da un francese ai primi del Novecento, ma ci vollero almeno cinquant'anni perché la società percepisse il problema della sicurezza. Le case automobilistiche non erano interessate, i primi codici stradali sono degli anni Sessanta. Tutto merito della testardaggine di alcune persone: un assicuratore, che voleva risparmiare sui premi della sua compagnia; e un avvocato, il futuro candidato alla presidenza Usa Ralph Nader, che fece la battaglia di opinione pubblica. Fu una innovazione collettiva».
Ci sono casi contrari, in cui c'è l'idea, ma manca la tecnologia?
«Il web. Paul Otlet, un belga visionario, di professione bibliotecario, inventò un formato di scheda bibliografica che utilizziamo ancora oggi. E nel 1910 immaginò una rete mondiale di informazioni, offrendo un servizio simile a un motore di ricerca».
E come faceva?
«Riceveva richieste via posta e rispondeva usando le sue schede, connettendo fra loro informazioni diverse: il suo sogno era una classificazione di tutta la conoscenza, voleva riuscire ad archiviare tutto, immagini, dati... Però in analogico. Gli stessi inventori del web Robert Cailliau e Tim Berners-Lee l'hanno indicato come il loro precursore».
Se dovesse scegliere una innovazione?
«Il filo spinato. Nasce nel 1873 per risolvere un grosso problema: con l'espansione a Ovest infatti gli americani hanno bisogno di recintare il bestiame e le proprietà terriere, ma le palizzate in legno hanno un costo economico insostenibile, pari al debito nazionale».
E come viene inventato?
«Anche in questo caso, per imitazione. Della natura. Alcuni iniziano a usare una pianta texana, la maclura, che però attira insetti e cresce un po' come e dove vuole. Allora un agricoltore mette a punto una imitazione artificiale della maclura, due commercianti la vedono a una fiera e la brevettano. È solo un filo di ferro arrotolato, con le punte. Semplice e geniale. In pochi anni viene prodotto a tonnellate».
Perché ha cambiato la nostra vita?
«Senza, l'economia americana non avrebbe potuto svilupparsi come ha fatto. Non sarebbe quella di oggi. Un ruolo che si può paragonare solo a quello delle carte di credito».
Una invenzione tormentata.
«Quasi romanzesca. Nel '58 un commerciante in crisi, Stanley Dashew, sentì per caso parlare di un nuovo metodo per stampare in rilievo su plastica e pensò di utilizzarlo per le carte di credito. Che allora erano proprio di carta e quindi si rovinavano, con grossi problemi di sicurezza e affidabilità».
Come riuscì Dashew a imporre le carte in plastica?
«Si presentò dai dirigenti delle grandi banche americane con le carte coi loro nomi già stampati sopra. Fece colpo.
Non solo ha consentito di risparmiare tonnellate di carta per le banconote, ma negli Stati Uniti la carta di credito è anche un mezzo di finanziamento: per dire, i giovani Brin e Page hanno usato delle carte di credito per avviare la loro società, Google...».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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