Signora Cancellieri,
lei che è ministro degli Interni lo mandi a casa,gli dia un po’ di riposo,lo spedisca in un ufficio tranquillo a riflettere sul corretto rapporto tra Stato e cittadini. Stiamo parlando di Sua Eccellenza Andrea De Martino, Prefetto di Napoli. Con poche ma ben scelte parole l’illustre funzionario si è conquistato un posto di rilievo nella galleria degli orrori di questa spossata Italia. La sua performance, immortalata in un video di un paio di minuti, è finita su Internet suscitando proteste e commenti indignati.
Il fatto: 18 ottobre, vertice anti camorra alla prefettura di Napoli. Prende la parola Don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano. È un sacerdote e difende la sua comunità dalla criminalità organizzata, il tono è rispettoso e le parole misurate. Durante un passaggio del suo discorso indica Carmela Pagano, Prefetto di Caserta. «La signora ha avuto la gentilezza di riceverci...». Sua Eccellenza Pagano non fa una piega. Ma il padrone di casa Prefetto De Martino non accetta l’evidente attacco al cuore dello Stato e salta per aria: «Come signora? Lo sa di chi sta parlando? È un Prefetto, lei deve portare rispetto per l’istituzione! Lei chiamerebbe mai “signore” un sindaco? Dov’è il rispetto per le istituzioni?... » e via una sequela di proteste e di accuse ai danni del malcapitato sacerdote.
Don Patriciello, intimidito, balbetta le sue scuse e poi chiede di essere «perdonato» visto che non è abituato a parlare in riunioni ufficiali. A fatica il vertice può riprendere. Tra il pubblico, una voce, immortalata dal video di internet, chiede rispetto anche per i cittadini e non solo per i Prefetti.
Ecco, appunto, il rispetto. Perché qui il problema non è un attimo di stanchezza di un funzionario dello Stato, evidentemente messo sotto pressione dal suo incarico. Qui il problema è un’Italia dove ci sono i «Signori» e i «Signori Prefetti». E dove la sostanza delle cose e dei problemi (nel caso specifico la camorra) passa in secondo piano di fronte allo spagnoleggiante gusto per titoli e formalismi e a una cultura del proprio ruolo che sembra appartenere all’Ottocento.
Nella lingua inglese il funzionario statale è il «civil servant» e «servant» preso da solo è molto semplicemente servitore, domestico. Questo dice già tutto sulla concezione che da quelle parti si ha della funzione pubblica, un servizio rivolto ai cittadini. Certo, la tradizione amministrativa dell’Italia nulla ha preso dal mondo anglosassone e molto ha invece mutuato dalla Francia, in cui il burocrate pubblico ha dietro di sé tutto il peso di uno Stato portatore di valori etici.Ma l’efficientismo dei grand commis transalpini è un modello lontano anni luce dal formalismo auto- difensivo dei burocrati di casa nostra. Così, ancora oggi, chi ha a che fare in Italia con un ufficio pubblico si sente spesso non soggetto autonomo di diritti (e doveri), ma vittima di una macchina implacabile in cui a decidere è solo la volontà dei burocrati, unici in grado di interpretare, a mo’ di aruspici,circolari,regolamenti e codicilli, appositamente scritti in maniera incomprensibile ai non iniziati. Nelle parole di De Martino sembrava di leggere la cultura di questo mondo, il vero ostacolo allo sviluppo dell’economia e al futuro dei nostri figli.
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