La Silicon Valley italiana dove si arriva col trattore

Mirandola, vicino a Modena, è la capitale europea del biomedicale, seconda nel mondo solo a Minneapolis. Per raggiungerla bisogna fare lo slalom tra campi e vigneti Una strada vera? Se ne parla da 40 anni

La Silicon Valley italiana dove si arriva col trattore

Il vero problema sono i trattori. A collegare Mirandola con il mondo, sia che si arrivi da Modena, sia dall'autostrada del Brennero, sono due belle strade di campagna: campi e vigneti interrotti da qualche paese e molti capannoni. Ma se si capita nel periodo dei lavori agricoli, meglio rassegnarsi e dare un'occhiata al panorama: raggiungere la capitale europea del biomedicale diventa un esercizio di pazienza. Eppure, nonostante mietitrebbia e altri cingolati, Mirandola è diventata in pochi anni la Silicon Valley padana, un distretto produttivo secondo solo all'americana Minneapolis. Ogni anno nel mondo un milione di persone vengono operate a cuore aperto: nella metà dei casi, dall'Australia agli Stati Uniti, le apparecchiature vengono da qui, prodotte da un centinaio di aziende con 5mila lavoratori e un miliardo di giro d'affari, realizzato almeno per l'80% all'estero. Il tutto in un quadrato di una decina di chilometri di lato, con al centro Mirandola e intorno una cintura di sei o sette piccoli comuni.

IL SOTTOSCALA

Secondo la leggenda, che in realtà è storia con un'atmosfera da film americano, tutto inizia nella cantina di un farmacista, Mario Veronesi, classe 1932. Annoiato da un lavoro che trova monotono, nei primi anni Sessanta Veronesi inizia a trafficare con qualche macchina nel sottoscala. Un paio di amici medici, impegnati nelle prime dialisi, gli suggeriscono di produrre i tubicini in materiale usa e getta al posto del lattice che va di volta in volta sterilizzato. È il primo successo. L'immaginifico farmacista passa un po' alla volta dai tubicini alle intere macchine per dialisi. Crea una prima azienda, la fa crescere, poi si rende conto che per fare il salto di qualità ci vogliono soldi veri, e lui non li ha. La vende a un multinazionale e ne fonda un'altra. Con lui si fanno le ossa un paio di mirandolesi svegli che seguono il suo modello: dopo qualche anno sotto padrone si mettono in proprio; le aziendine finiscono per moltiplicarsi. «Abbiamo iniziato dalla dialisi e da lì siamo diventati esperti in tutti i tipi di circolazione extracorporea, poi ci siamo via via allargati», spiega Stefano Rimondi, ingegnere, ex presidente di Assobiomedica, l'associazione di settore. Ad acquistare le piccole aziende all'avanguardia vendute dai fondatori arrivano i colossi, gli americani di Baxter e Medtronic, i tedeschi di Braun e Fresenius che mantengono qui produzione e in quasi tutti i casi anche ricerca e sviluppo. Gli italiani, però, sono rimasti piccoli. «L'ostacolo è la finanza», dice Rimondi. «Le banche fanno fatica a dare soldi a progetti nuovi, il venture capital all'americana qui non c'è mai stato, e in più i tempi di pagamento della Sanità pubblica sono da sempre una palla al piede: impossibile autofinanziarsi se le Asl ti pagano a 300 giorni quando va bene. Solo colossi internazionali dalle spalle larghe posso permettersi di aspettare».

Sull'altro piatto della bilancia a Mirandola ci sono le teste: «Da noi anche in casa si parla di filtrazione del sangue piuttosto che di sondini o di valvole. Qui riusciamo a mettere insieme i medici e gli ingegneri e a costruirci sopra una macchina. Per noi è normale, fuori Mirandola no». A 72 anni Mario Bellini è uno degli imprenditori storici della zona. Dal 1964 al 1977 ha lavorato con il precursore Veronesi, poi si è messo in proprio, ha fondato un'azienda che ha venduto agli americani, ne ha fondata un'altra e l'ha venduta ai tedeschi. Da qualche anno dirige la Rand, sede a Medolla, che ha messo a punto con cinque tra i maggiori centri di ricerca al mondo un fegato bio-artificale, ancora in sperimentazione, basato su cellule umane e animali. In ordine di tempo l'ultima creatura di Bellini, che è anche scrittore e autore di una divertente traduzione in dialetto mirandolese dell'Inferno dantesco, si chiama RigeneRand, ed è una scommessa sul futuro. L'imprenditore l'ha fondata insieme a Massimo Dominici, docente all'Università di Modena e uno tra i massimi esperti mondiali di terapie rigenerative; la società sviluppa avanzate terapie antitumorali, si occupa di rigenerazione cellulare e ingegneria dei tessuti. Poco meno di un anno fa ha ricevuto un finanziamento di 8,7 milioni dal fondo Principia, uno dei maggiori operatori di venture capital italiani. Eppure Bellini sembra preoccupato: «Sono più che ottimista per le mie aziende, è sul futuro del distretto che non vedo chiaro. Mi chiedo fino a quando riusciremo a mantenere la nostra creatività, la capacità di produrre innovazione. Se qui non troveranno idee anche le multinazionali inizieranno ad andarsene».

SANGUE E TRAPIANTI

A scommettere su Mirandola è Rimondi, che oltre che presidente di Assobiomedica è stato anche ai vertici di alcune multinazionali del settore: nel 2014 ha avviato con il sostegno di investitori svizzeri e americani una start-up, Aferetica, che si basa su una tecnica innovativa per il trattamento degli organi da trapiantare che vengono ripuliti e tenuti in vita. «Siamo già una decina di persone e metà sono giovani laureati in bioingegneria o biologia».

Un altro tra i gruppi in maggiore crescita è quello di Carlo Bonomi, che di Mirandola non è (è nato a Crema) e che, anzi, dal suo quartier generale di Milano è in questi giorni in lizza per diventare il nuovo presidente di Assolombarda, l'associazione degli industriali più potente d'Italia. Bonomi (nessuna parentela con i Bonomi finanzieri), ex manager di una multinazionale, ha iniziato a fare shopping da queste parti attraverso la sua capogruppo Synopo. Nel 2015 ha comprato la Sidam, che produce tra l'altro dispositivi per sale operatorie e terapia intensiva e che resta guidata dalla figlia del fondatore, Annalisa Azzolini. Nel dicembre dell'anno scorso, un altro acquisto, Btc Medical Europe, che si occupa di oncologia e trattamento del sangue, con sedi poco lontano da Mirandola, a Valeggio e Nonantola, ed è guidata anch'essa da una donna, Antonella Tonolli. «L'obiettivo è uno solo», spiega Bonomi. «Creare un polo integrato del settore. Serve la capacità di investire e serve innovazione». Il gruppo, un centinaio di dipendenti e poco meno di una ventina di milioni di fatturato riserva alla ricerca circa il 10% del giro d'affari. «Oggi si studiano i prodotti che si produrranno tra tre o cinque anni e l'unico rischio è quello di rimanere fermi», dice Bonomi. «E soprattutto non bisogna perdere la grande capacità di Mirandola. Quella dettata già da Veronesi, il farmacista da cui è iniziato tutto: se senti un medico che impreca, vai a sentire che cosa dice. Lui ha un problema, per te può essere un affare».

LA SCORCIATOIA

Per il momento a frenare i mirandolesi non c'è riuscito nemmeno il terremoto: quello del 2012, due scosse principali nel mese di maggio, provocò 27 vittime e ha lasciato segni visibili nel centro storico, ancora, parzialmente, in fase di ricostruzione. «La gente non si fermò», ricorda Rimondi. «In estate lavoravano già tutti nelle tende o nei prefabbricati con 40 gradi all'ombra. Ci furono aziende che riuscirono ad aumentare il fatturato anche nell'anno del sisma».

Restano, purtroppo, i trattori. Da decenni si parla di costruire un'autostrada, la Cispadana, per collegare la Modena-Brennero alla Bologna-Padova, con un'uscita proprio a Mirandola. La decisione è stata presa, i finanziamenti deliberati, ma da allora ogni singolo comune della zona ha iniziato la sua personale battaglia per far cambiare il percorso. «Da 40 anni è sempre la stessa storia», ricorda il veterano Bellini.

«Allora arrivavano i primi clienti tedeschi e ci dava fastidio far vedere come eravamo messi. Andavamo prenderli al casello, dicevamo che c'era stato un incidente e che dovevamo usare una scorciatoia. Non era vero, ma ci sembrava di essere più credibili».

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