La sindrome da G8 L’ordine agli agenti: non dovete reagire

Lo sfogo dei poliziotti sulle strade: "Hanno paura che ci scappi un altro morto e quindi ci obbligano soltanto ad abbozzare"

La sindrome da G8 
L’ordine agli agenti: 
non dovete reagire

«Maledetti! Guardate là il collega ferito, è la fine del mondo, guardate quanti incappucciati circondano il blindato dei carabinieri. Altro che pochi violenti isolati, diamine. È un’altra Genova, questa. E noi stiamo qui a fare le belle statuine mentre in testa ci piove di tutto. Fermi, dietro ai blindati, carne da macello mentre quelli (indica il furgone dell’Arma circondato dai black bloc, ndr) al posto di guida vedono la morte in faccia e magari pensano a quello là, come si chiamava, a quello che ha sparato a Giuliani a Genova. Una follia, cazzo. Una follia. Questa maledetta politica buonista è una follia. Perché la parola d’ordine sapete qual è? La volete sapere? Abbozzare. Attendere. Ripiegare. Non rispondere. Dobbiamo ab-boz-za-re sempre e comunque! Dal G8 di Genova l’ordine è sempre quello, altrimenti ci danno della polizia cilena e fascista. Obbligati a nasconderci dietro i mezzi, stare fermi come birilli anziché rispondere come siamo addestrati a fare. Guardate che scempio. Guardate gli occhi dei colleghi sotto ai caschi: vorrebbero correre e affrontare quegli scalmanati e invece no, zitti e buoni. Quelli forse arrostiscono là dentro e lo Stato al massimo concede ai blindati i caroselli con sirena, qualche lacrimogeno, idranti obsoleti, rare reazioni di alleggerimento. La solita strategia difensiva a oltranza. Abbozzare perché sennò ci scappa il morto, ma quale morto? Perché se muore una divisa, chissenefrega. Se muore uno che ti sta lanciando in faccia un estintore, diventa un caso internazionale con quei politicanti che parlano sempre di pochi facinorosi. Non ce la facciamo più: abbozziamo allo stadio, per la Tav, in strada coi black bloc. Scrivetelo, cazzo. Scrivetelo». Detto, fatto. Scritto tutto alla lettera, tra i lacrimogeni e la rabbia. Scritto a imperitura memoria di chi pensa all’italica maniera del meglio non fare per non rischiare di far male. Lo sfogo del poliziotto che stringe rabbioso lo sfollagente, che s’è fatto Genova e che ogni weekend se la rischia con gli ultras, si interrompe al passaggio di un superiore che raccomanda calma. In piazza San Giovanni, in disparte, c’è gente che si danna l’anima quando serve, vaccinata agli scontri, abituata alla guerriglia, come il dirigente Maurizio Ariemma del contingente Milano oppure il vicequestore Antonio Adornato del gruppo Senigallia, vecchia scuola della Celere romana, uscito indenne non si sa come dal linciaggio che ha colpito i colleghi del Settimo Nucleo guidato dal comandante Vincenzo Canterini, il «famigerato» Canterini della Diaz. Che si fa vivo a sorpresa nel pieno della baraonda romana: «In questo momento torno indietro negli anni, ho un brivido, sento uno spiffero di Genova. Questi teppisti sono meno organizzati rispetto a quelli del G8 ma sono tanti, e da quel che vedo usano tattiche da ultras, penso che provengano in gran parte dell’estero. La politica del “contenere” non funziona più se si lascia la piazza a un’orda di teppisti che si fomenta di minuto in minuto e fa proseliti, anche tra chi non ha cappucci neri in testa. Occorre una reazione, composta, ma ferma». Canterini, in contatto coi suoi ex uomini in piazza, fa poi un’osservazione ad alta voce. Da non sottovalutare: «Se la manifestazione era pacifica a che servivano decine e decine di “avvocati democratici” a spasso se non a difendere i manifestanti eventualmente coinvolti negli scontri? I disordini, l’input a gettare scompiglio nel corso del corteo, evidentemente è qualcosa che è stato pianificato politicamente dalla stessa organizzazione internazionale di Genova, che ha raccordato antagonisti violenti da tutta Europa». Poco più in là, piegato su un tenente dei carabinieri con il volto coperto di sangue, il colonnello dell’Arma Pino Petrella predica tranquillità mentre piovono bombe carta e sampietrini. Lui situazioni «bollenti» come queste le ha vissute sulla propria pelle, ferito in Val Di Susa dai black bloc versione No-Tav. Non ha tempo per le reprimende dei residenti del quartiere Monti che al pari di tanti carabinieri e poliziotti si chiedono perché il centro cittadino è pieno di guardie rilassate a guardia dei palazzi istituzionali mentre tutt’intorno regna il delirio. Perché sono stati lasciati per strada cassonetti d’immondizia, puntualmente dati alle fiamme. Perché non si è vietato il parcheggio indiscriminato, là dove i roghi hanno incenerito auto e scooter. Perché 70 feriti dopo i 120 della Val di Susa. Perché si è permesso l’assalto a chiese, banche, ministeri, supermercati. Perché, soprattutto, non si è intervenuti a difesa del furgone dei carabinieri abbandonato all’inferno sul modello di quanto accadde in corso Torino a Genova sotto lo sguardo compiacente del prete antagonista don Vitaliano. Come certifica lo spray sul portellone annerito dal fumo, «Carlo vive», l’obiettivo era vendicare l’icona Giuliani.

Nessuno vuole pensare che serva un morto ammazzato a svegliare gli «attendisti» dell’ordine pubblico. Ma occorre che qualcosa cambi, subito. Perché chi ha schivato sassi, molotov e bulloni, oggi farà nuovamente la bella statuina: allo stadio Olimpico c’è il derby. «Abbozzare» ancora? Auguri.

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