da Torino
Quando gran parte di ciò che si scrive attinge dichiaratamente da vicende autobiografiche, come è stato per Delphine de Vigan con Niente si oppone alla notte e Da una storia vera (entrambi Mondadori), i lettori si aspettano a ogni libro una rivelazione in più. Le fedeltà invisibili (Einaudi, pagg. 134, euro 17, traduzione di M. Botto), invece, ultimo romanzo dell'autrice francese già finalista al Goncourt presentato ieri al Salone di Torino, è un ritorno alla fiction: la storia di due ragazzini - amici indivisibili - e di due donne, una madre e un'insegnante, legate a loro da intimità familiare e memorie dolorose. Ali e catene: le fedeltà invisibili, appunto.
Chi sono le quattro voci del romanzo?
«Théo è un figlio di genitori separati che vive in profonda solitudine, imprigionato nel silenzio dalla lealtà ai genitori. Mathis, il suo migliore amico, ne subisce il fascino e adotta lo steso patto di silenzio. Hélène, la loro insegnante di biologia, ha patito sofferenze profonde durante l'infanzia e riconosce in Théo i segni dello stesso dolore: lo protegge, ma lui non parla e lei si mette in pericolo con l'istituzione scolastica. Cécile, casalinga per via dei figli e madre di Mathis, capisce che l'uomo che ha sposato è diverso da come credeva».
Tutti stanno per cambiare.
«Tutti sono in un momento particolare, tutti sono legati da una domanda: rimanere fedeli oppure no?».
È vero che gli unici a potersi definire vittime sono i bambini?
«È un po' più complicato di così. Gli adulti, i genitori, sono anche vittime, della loro stessa infanzia. Ciò che mi interessa, però, non è dire che cosa è bene o che cosa è male, ma è così che succede. Descrivere ciò che sente un bambino verso i suoi genitori quando dicono male uno dell'altro, quando si separano, quando non è autorizzato a riferire le cose che prova».
Come questo romanzo rispecchia la contemporaneità?
«Théo e Mathis sono chiaramente due preadolescenti di oggi. Nel senso che tutte le loro esperienze di dodicenni, come la trasgressione dell'alcol, la mia generazione le ha fatte più tardi, erano per noi impensabili. Questo racconta qualcosa della nostra epoca: la pressione che si esercita sugli adolescenti oggi e che viene da diversi ambiti: è sociale, familiare, mediatica. L'accesso all'informazione, a internet, è molto ansiogeno per i ragazzi».
I suoi precedenti romanzi autobiografici hanno richiesto un prezzo psicologico?
«Niente si oppone alla notte è un libro in cui ho cercato di ritrovare la storia di mia madre, le radici del suo suicidio, anche se questa verità era chiaramente inaccessibile. Le conseguenze primarie sono state sul mio lavoro di scrittrice: il libro seguente, Da una storia vera, è nato per rispondere alla domanda che tutti i lettori mi facevano: è tutto vero?. E volevo capire perché è così importante per i lettori sapere».
La sua scrittura è fortemente intrisa di realtà.
«In Le fedeltà invisibili sono tornata alla fiction solo perché per me è più comoda per dire le cose più intime in assoluto in modo limpido, per raccontare ciò che siamo davvero. Direi che il successo dei miei libri autobiografici è fondato su un malinteso: i lettori cercano il tutto vero o tutto falso, non vogliono rendersi conto che il libro è comunque la mia versione, ovvero una delle versioni possibili, non vogliono ascoltare. Ma forse hanno ragione».
Il commento di un lettore che l'ha toccata di più?
«Questo libro funziona come uno specchio e ci vedo me stesso. È l'essenziale del mio lavoro. Spero sempre che i lettori sottolineino non qualche frase, ma tutto il libro».
La famiglia è al centro di tutti i suoi libri. Eppure mai come oggi la sua stessa esistenza è messa a dura prova.
«La famiglia può essere luogo di distruzione, ma anche di protezione e costruzione e oggi è necessario reinventare un modo perché possa rimanerlo.
Nelle grandi città, a esempio, la cellula familiare è ormai ridotta al minimo, ma quando accade qualcosa di disfunzionale, la presenza di nonni e nonne, zii e zie può rivelarsi salvifica. Come madre, mi rendo conto che è un dovere accompagnare i miei figli all'età adulta. Ma ogni giorno mi chiedo fino a dove tener loro la mano e quando invece lasciarli partire».
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