«Sopravvivere coi lupi» è un falso

È uno degli inganni storico-letterari più grossi degli ultimi vent’anni. Anzi, lo studioso della Shoah Maxime Steinberg ne ha parlato come di «una delle più grosse manipolazioni della storia». E a farla dimenticare non basteranno le tardive scuse dell’autrice.
Misha Defonseca ha ammesso che la storia raccontata nel suo libro Sopravvivere coi lupi non è vera. L’autrice non è mai stata quella bambina di 8 anni, ebrea di origine, che per ritrovare i genitori deportati dai nazisti percorse a piedi 3000 chilometri, dal Belgio all’Ucraina, venendo salvata da un branco di lupi. Misha non è quella bambina perché quella bambina non è mai esistita. Anzi, se non bastasse, la Defonseca non è neanche ebrea. Il suo vero nome è Monique Dewael, ed è cattolica. A sentir lei, però, quest’identità non le piaceva: «Da quando avevo 4 anni tento di dimenticarlo. Mi sento ebrea da sempre... Mi sono da sempre raccontata un’altra vita, lontana dagli uomini che detestavo. E così mi sono appassionata ai lupi... e ho mischiato tutto». O almeno così ha dichiarato a Le Figaro. E in questa immedesimazione fantastica, degna del miglior Salgari, è riuscita proprio bene, visto che il libro uscito nel ’97 (in Italia nel ’98 per i tipi di Ponte alle Grazie) è un successo internazionale: è stato tradotto in 18 lingue, conta milioni di lettori che hanno visto in Misha una nuova e più struggente Mowgli, l’eroe del Libro della giungla di Rudyard Kipling. Tanto che il testo è stato da poco trasformato in film, Survivre avec les loups, che in cinque settimane è stato visto da più di 540mila persone.
Ora però per la Defonseca, che ha 80 anni e si è trasferita negli Stati Uniti, è arrivata la resa dei conti. La verità è venuta improvvisamente a galla solo perché alcuni storici hanno trovato delle incongruenze nella sua vicenda, dopo che un blog aveva messo in linea alcuni documenti d’archivio. Qualcuno si è accorto che l’autrice durante la guerra era iscritta a una scuola elementare di Bruxelles. Dapprima la nostra fantasiosa, che stava pubblicizzando il suo film a Parigi mostrando a tutti la bussola che l’aveva guidata per tutto il suo lunghissimo viaggio, si è detta «molto ferita», poi è arrivata l’inevitabile confessione. Ma non l’assunzione di responsabilità. La Defonseca-Dewael sembra scaricare ogni volontà mistificatoria su Jane Daniel, editrice americana che, una decina di anni fa, l’aveva convinta a mettere su carta la sua «vicenda».
Anche in questo caso sarà difficile scoprire la verità. L’unica certezza è che è un caso tutt’altro che unico. Nel 2006 vennero contestate le memorie in cui il regista austriaco Conny Hannes Meyer raccontava di essere stato a Mauthausen; nel 1999 era toccato allo scrittore svizzero Benjamin Wilkomirski. Insomma, c’è chi non riesce a vivere senza impossessarsi dei lutti altrui.

C’è chi non riesce proprio a fare a meno di impossessarsi del dolore vero e di svilirlo, magari per soldi, magari per fama o per pura mitomania. Come se a falsificare la storia non bastassero le imbecillità dei negazionisti.

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