Il 18 aprile del 1948, settant'anni fa, gli italiani andarono in massa al voto. Si recarono alle urne il 92% degli aventi diritto, una percentuale mai più raggiunta che faceva dell'Italia il Paese più partecipativo d'Europa. L'affluenza non deve stupire, pesava la novità del confronto partitico dopo il Ventennio fascista, il desiderio femminile di esercitare un diritto acquisito da poco. Ma soprattutto pesava la sensazione di sentirsi a un bivio. Da un lato c'erano partiti chiaramente schierati per l'ingresso dell'Italia nel blocco occidentale, dall'altro un partito comunista che, dopo aver ridotto al ruolo di satelliti i socialisti, tifava quanto meno per una neutralizzazione dell'Italia, se non per il suo ingresso nel blocco sovietico. Per altro in quella che veniva già allora definita «una pace per bande» si temeva che le elezioni portassero verso un clima di violenza. Che poco dopo, con l'attentato a Togliatti, il 14 luglio '48, venne evitato per un soffio.
Una situazione al fulmicotone, i cui echi e riflessi per altro si estendono sino al presente, molto ben raccontata nel saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri: 1948. Gli italiani nell'anno della svolta (Il Mulino, pagg. 436, euro 25). Il volume si avvale di molti diari, scritti privati e lettere d'epoca per ricostruire il clima di un periodo. In una fase in cui tutti i partiti retoricamente ripetevano che il 1948 era come il 1848 - insomma un momento in cui si fa l'Italia o si muore - l'intero elettorato si sentì chiamare verso una scelta estrema. Alla fine il risultato, con uno strepitoso 48%, premiò una Dc che giocò con oculatezza la carta della ricerca del benessere e di una democrazia con una forte carica sociale. Per la prima volta dopo molto tempo gli elettori moderati ritrovarono in pieno il proprio ruolo, questo al netto del robusto risultato del Pci e dell'arrivo in parlamento di una robusta pattuglia di eletti del Msi.
Il risultato fu un'Italia che si avviava verso una normalizzazione economica e politica, allontanandosi per sempre dallo spettro della guerra civile. Ovviamente questo percorso ebbe un prezzo. La scelta di Nenni di legarsi a filo doppio con il Pci, nonostante i dubbi di socialisti come Pertini e Lombardi, privò il Paese di ogni possibile alternanza tra una sinistra non staliniana e la Dc. Non solo, la mancanza di ogni possibile ricambio portò rapidamente ad un certo immobilismo statalista che ha lasciato un irrisolto strascico nella nostra storia. Non c'è dubbio che in quelle elezioni il Paese fece una scelta di responsabilità riassunta nella formula di Gaetano De Sanctis: Cultura, Europa e Libertà.
Certo, i più non ci erano arrivati attraverso l'alata prosa dello storico, ma attraverso le vignette di Guareschi o i manifesti che, guardati normalmente, riproducevano il Garibaldi del Fronte popolare e girati, sotto sopra, facevano uscire l'arcigno volto di Stalin. Ma la politica è così.
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