La scelta finale spetta a noi

Il film si interroga sul confine tra naturale e artificiale, tutelando il libero arbitrio

La scelta finale spetta a noi

Venezia - Fra i suoi tanti meriti, il progresso della medicina ha purtroppo portato con sé l'illusione di poter «sconfiggere» la morte spostando sempre più avanti la soglia di quella che è una sopravvivenza più artificiale che reale. La tecnica si è impadronita della nostra esistenza e la tiene in pugno. Una volta la morte era naturale, apparteneva alla sfera della familiarità, si moriva in casa così come in casa si era nati. Oggi è il tabù che demanda a macchine, strutture, specialisti, la gestione di un corpo tenuto in vita oltre e a dispetto della vita. Quella che noi gente semplice, e che può avere o meno il dono della fede, conosciamo e riteniamo tale, quella per cui abbiamo pensato valesse la pena vivere, pur sapendo che in un futuro, prossimo o venturo, morire avremmo comunque dovuto. Di là dalla sacralità della vita e della liceità o meno dell'eutanasia, il vero tema sul tappeto è probabilmente questo, in Bella addormentata di Marco Bellocchio presente sullo sfondo, nel suo rimandare alla dolorosa vicenda di Eluana Englaro.
Nel film, il rumore sordo della macchina che assicura la respirazione di un corpo inanimato è uno di quelli che straziano chi lo ascolta, e lo strazio è ancora più forte se il suono fa da contrappunto all'immagine di una piccola principessa bionda che sembra dormire e che da un momento all'altro ti illudi e speri si possa risvegliare, oppure ti disperi perché sai che così non sarà. Nel chiuso di reparti ospedalieri e, quando ci sono le possibilità, di abitazioni private, si consuma una delle tragedie del nostro tempo, ma proprio perché essa riguarda situazioni individuali che includono oltre al soggetto sofferente i suoi familiari, genitori, mogli, mariti, figli, si vorrebbe meno radicalità nei giudizi, meno certezze, meno lezioni di morale... Si viaggia dentro abissi di dolore e non sapremmo dire se ci sia più eroismo in chi non si rassegna e spera, sempre e comunque, a dispetto di tutto, e chi invece pensa che sia più giusto, addirittura più caritatevole, porre fine a quell'agonia.

Accanimento terapeutico, malato terminale, stato vegetativo: il linguaggio medico è pieno di ossimori e di circonlocuzioni con cui esorcizzare e/o addomesticare una qualcosa che non padroneggiamo più, il confine fra la vita e la morte. La stessa enfasi sul diritto alla prima, si porta con sé la deriva da Stato etico che si fa tutore della nostra salute e minaccia che se non sappiamo vivere in modo sano potremmo incorrere in sanzioni. Spremuti dalle tasse, ci sentiamo dire che uno stile di vita sbagliato ne comporterà altre, per meglio educarci e condurci sulla retta via dell'alimentazione corretta.
Sempre più creiamo una società di divieti e di controlli, tutti sempre, naturalmente, per il nostro bene e il nostro benessere.

C'è qualcosa di paradossale nella pretesa di volerci far morire in buona salute e insieme è la spia di una società ossessionata dalle regole, dalla norme, dai tribunali, una volontà di uniformare ciò che uniformabile non è: l'essere umano con le sue diversità, i suoi perché e i suoi desideri, le volontà e le aspettative, il diritto, se vuole, di farsi del male perché è comunque il suo male, ha a che fare con la sua storia individuale ed è per lui più umano del bene imposto suo malgrado. Ci lasciamo spogliare dei nostri diritti, ma una società senza il libero arbitrio dei suoi membri è una caserma o un carcere. Oppure un cimitero di morti viventi. Il trionfo della medicina, sotto certi aspetti.

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