Lo ripetono tutti in loop: giornalisti mainstream e conduttrici televisive, intellettuali da rotocalco, nani e ballerine, ministri degli esteri e persino presidenti della Repubblica: la nazione chiude, la nazione impoverisce gli spiriti, la nazione fa provinciale (e anche un po' deplorable). Quando poi diventa nazionalismo, orrore!, equivale a fascismo, razzismo, xenofobia. E poi il nazionalismo porta inevitabilmente con se le guerre, non ne ha provocate due nel Novecento? Meno male che l'Europa c'è!
Non dobbiamo regalare dignità di «discorso» a questo cicaleccio che non fa che ripescare i più vieti canoni della ideologia della fine delle nazioni: per questo mi vengono ai piedi i capelli (che non ho) quando mi capita di sentirli da ministri, anche di questo governo, e da presidenti della Repubblica. Guarda caso, però, solo da noi sopravvivono. Andate a dire a uno statunitense che la nazione non esiste più: vi guarderà disgustato o vi colmerà d'improperi. E solo quattro gatti dell'intellettualità globalist East-West coast hanno trovato «nazionalista» l'ultimo grande discorso di Trump all'Onu. Ma, lo sappiamo, Trump è un tipaccio, meglio non fidarsi. Allora ascoltiamo Macron, l'europeista Macron: certi passaggi dei suoi interventi ricordano non solo De Gaulle, persino Pétain, tanto alza il peana alla nazione Francia.
I tòpoi che reggono questa (povera) ideologia dell'anti nazione sono fondamentalmente tre:
1) le nazioni sono superate;
2) le nazioni portano alla guerra;
3) le nazioni producono il nazionalismo.
Si tratta nei primi due casi di affermazioni storicamente infondate, nel terzo di una vera e propria tautologia. Che le nazioni fossero superate lo sostennero, negli anni immediatamente successivi al crollo del muro di Berlino, una serie di autori (guarda caso tutti appartenenti a Stati nazione ben solidi) statunitensi come Francis Fukuyama (La fine della storia e l'ultimo uomo, 1992) e Thomas L. Friedman (Il mondo è piatto, 2005) e giapponesi come Kenichi Ohmae (La fine dello Stato nazione, 1995). Era un'autentica ideologia, che ha spopolato negli anni Novanta, ma già imbarcava acqua con l'11 settembre, e che è finita affondata con la crisi del 2008. Già all'epoca qualcuno, come il grande Samuel Huntington, mise in guardia e spiegò che il ruolo delle nazioni, tutt'altro che diminuito, era addirittura cresciuto dopo il 1989, e che si sarebbe ulteriormente intensificato. Cosa che larga parte delle scienze sociali e politiche ha poi confermato nei decenni successivi. Oggi nessuno studioso informato e serio prenderebbe più sul serio le tesi del «superamento delle nazioni».
Quanto al sentimento nazionale che porterebbe alla guerra, anche questa è un'interpretazione dei due conflitti mondiali datata e discutibile: quelli che si scontrarono nel 1914 non erano Stati nazione ma Imperi (anche quando non si chiamavano così, come la Francia) e la guerra fu prodotta dai conflitti ingenerati dall'espansione imperiale, come già allora videro non solo Lenin ma anche il liberale Hobson. Per ciò che riguarda la Seconda guerra mondiale, solo chi non conosce il nazismo può definirlo un nazionalismo: Hitler non era un nazionalista ma un imperial-razzista, e le razze non si disponevano nella sua visione all'interno della nazione ma di spazi post nazionali, cioè imperiali. Basta leggere qualsiasi discorso di Hitler, basta sapere, come tutti dovrebbero, che in caso di vittoria la Germania avrebbe creato uno spazio europeo con una moneta unica, basta immergersi negli straordinari testi sullo spazio imperiale composti da Carl Schmitt durante la guerra e oggi tradotti in Stato, grande spazio, nomos (Adelphi, 2015).
La terza affermazione è infine una tautologia: non ci può esser nazione senza nazionalismo, cioè senza un legame solido, razionalmente emozionale ed emozionalmente razionale, con la propria nazione. Per cui, se correttamente inteso, il nazionalismo è un sentimento da rivalutare; di più, è una virtù. Come ci spiega Yoram Hazony, filosofo politico e biblista israeliano, direttore dell'Istituto Herzl di Gerusalemme ed editorialista del Wall Street Journal, nel libro freschissimo di stampa The Virtue of Nationalism (New York, Basic Books). Il nazionalismo non è un sentimento negativo e va inteso come una virtù nel senso greco del termine: come una condotta naturale (la natura dell'uomo essendo quella di animale politico) e adesione alla forma più giusta, in senso aristotelico, di comunità politica.
Il libro di Hazony è importante e ricco di spunti, richiederebbe quindi un lungo spazio per analizzarlo bene. Ci sono tuttavia tre punti essenziali.
Il primo. Dobbiamo essere riconoscenti in eterno a Israele e riscoprire la Bibbia, cioè l'Antico Testamento, come all'origine della nostra tradizione politica. In Italia tendiamo a dimenticarlo, diversamente dal mondo anglosassone, ma l'Occidente è, come scrisse il grande Leo Strauss, sia Atene che Gerusalemme. L'una non deve esistere senza l'altra. Cosa ci ha tramandato Gerusalemme, cioè l'Antico Testamento? Che l'antico popolo d'Israele è la prima nazione della storia e che questa Alleanza è più buona e giusta di quella dell'altra forma di organizzazione politica, l'Impero.
Ecco il secondo punto importante del libro di Hazony. Non esistono infiniti modelli di comunità politica, anzi nella storia ve ne sono solo due: la nazione, e il suo opposto, l'Impero. Quando perciò molti esaltano modelli post-nazionali, globali, federalisti e quant'altro, anche se non lo sanno (o fanno finta di non saperlo) quello per cui essi si battono è un Impero. La stessa Unione europea, come scrive Hazony, è strutturata come un Impero, fallace e fallimentare perché privo di un centro e guidato da un'autorità non politica ma tecnocratica, però pur sempre entità di carattere imperiale. E si badi bene che paragonano la Ue a un Impero anche studiosi che del Minotauro di Bruxelles forniscono giudizi più positivi e ottimistici di Hazony basti pensare al volume di Jan Zielonka, Europe as an Empire. The Nature of the Enlarged European Union (Oxford University Press, 2007).
Qualcuno potrebbe chiedersi cosa vi sia di male nell'Impero. Per Hazony esso mostra almeno tre ordini di problemi: conduce a guerre disastrose, produce una sorta di anarchismo diffuso perché si estende su spazi talmente vasti da non potere, neanche oggi, essere controllabili e infine lede la libertà dei popoli e degli individui e minaccia la democrazia intesa come controllo. Siccome la storia, dagli Assiri fino al 1919, è stata essenzialmente storia di Imperi, tanto in Occidente quanto in Oriente, le affermazioni di Hazony sono tutte verificabili. Al contrario le guerre condotte dalle nazioni, realtà più ristrette, più omogenee, in cui vige il principio di sussidiarietà tra i vari livelli del potere, sono sempre state più limitate. Altro che il nazionalismo autostrada verso la guerra, è al contrario l'imperialismo che la produce. Basta del resto vedere, nella storia della Ue, dopo che dal 1992 i governi nazionali hanno accelerato il processo di integrazione verso uno spazio post nazionale (imperiale), quanto le tensioni siano accresciute.
Il terzo punto importante del volume di Hazony sta nello scenario di insieme: quello che oggi è in corso è un conflitto su scala mondiale tra Nazioni e Imperi, tra nazionalismo e imperialismo (sotto forma di globalismo). Non è un caso che la nazione più imperialista e globalista del mondo, la Cina, sia al tempo stesso la più favorevole al commercio internazionale senza freni. E anche se le tesi sul superamento delle nazioni non hanno più molto credito, continua a essere egemonica in una larga parte delle élite internazionali l'ideologia imperialista-globalista, che porta a demonizzare, a condannare a priori, a delegittimare tutte quelle realtà che vogliono restare nazionali e non intendono assoggettarsi a spazi imperali.
Così ecco prevalere nel mainstream liberale la denuncia del nazionalismo di Trump, ecco i giudizi negativi sul Giappone, ecco soprattutto la condanna di Israele: in pagine molto dense e belle Hazony ci dimostra che una delle ragioni per cui una parte delle élite europee e nordamericane oggi odia Israele sta nella sua pervicacia a voler restare nazione, nel difendere i propri confini, la propria religione, la propria lingua e la propria cultura. Israele è lo scandalo: invece di adeguarsi ai valori dell'imperialismo-globalismo, cioè niente cultura nazionale, niente lingua, frontiere aperte, multilateralismo, sottomissione alle agenzie internazionali tipo Onu, Gerusalemme continua a tenere alta la fiamma della difesa del proprio popolo, dell'Alleanza, come nell'Antico Testamento.
Hazony fornisce al concetto di nazionalismo un significato un po' diverso da quello che siamo abituati oggi a sentire in Europa e soprattutto in Italia: la nazione per lui è comunità politica, fondata sulla omogeneità di una etnia, di una cultura e di una lingua principali, che però devono essere aperte, non esclusiviste e ovviamente rispettose delle minoranze integrate nello spazio politico nazionale. Quanto ai confini, il nazionalismo teorizzato da Hazony è difensivo e non espansivo. È una idea di nazione che rimanda a quella famosa di Ernest Renan (Che cosa è una nazione) e al significato francese di République. Ma è anche tanto simile all'idea di nazione del nostro Risorgimento che non era destinata, come sciaguratamente hanno scritto alcuni storici negli ultimi vent'anni, a generare il fascismo. Al contrario, l'idea liberale di nazione di Cavour e quella repubblicana di Mazzini hanno ancora molto da trasmetterci.
E se non amiamo definirci nazionalisti, perché diffidiamo sempre un po' degli ismi, possiamo però sottoscrivere la tesi di Hazony: il nazionalismo è, indubbiamente, una virtù.
Questo articolo è apparso su "Atlanticoquotidiano.it, quotidiano on line di approfondimenti economici-politici diretto da Federico Punzi, Danele Dell'Orco e Daniele Capezzone.
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