Cosa c’è di più romanzesco di un romanzo che racconta come rubare un manoscritto e diventare un romanziere famoso? Probabilmente niente (a parte le cacce alle balene e le cacce al tesoro). Melville e Stevenson sarebbero stati sicuramente attratti dal tema del plagio letterario se solo si fossero soffermati per un attimo a valutarne attentamente le potenzialità. Oggi, che di tempo libero ce n’è fin troppo, queste riflessioni le fanno con maggior profitto i produttori cinematografici. Se non possono far tradurre per il grande schermo un romanzo già pubblicato si ingegnano a commissionare soggetti sul tema dagli sceneggiatori più smaliziati. Ma si può dare anche il caso di una sceneggiatura originale che arriva nelle mani del produttore giusto e che quindi inneschi quell’effetto domino virtuoso capace di portare nelle sale cinematografiche un piccolo capolavoro sul genere.
È quanto succede con la pellicola «The words», in uscita questo fine settimana in Italia da Eagle Pictures che vede protagonisti Bradley Cooper, Jeremy Irons, Dennis Quaid e Olivia Wilde. Le parole del titolo, e raccontate nel film, sono quelle scritte in un romanzo d’amore, ambientato nel dopoguerra, ma anche quelle rubate da un giovane scrittore in crisi creativa (Cooper) che trova, in una vecchia borsa di cuoio, un manoscritto e decide di farlo suo. Infine sono le parole di un romanziere (Quaid) che racconta questa storia di plagio. Tre racconti in uno, dunque, in un film in cui realtà e fantasia si intrecciano inesorabilmente perché, come dice uno dei protagonisti, «il confine fra realtà e fantasia a volte è sottilissimo», anche se sempre netto, così come è sempre netta la regola sociale e fisica per cui ad ogni azione corrisponde una reazione. Rory (Bradley Cooper) non riesce a farsi pubblicare sino a che non gli capita per le mani una storia entusiasmante, ambientata nella Seconda Guerra Mondiale. Solo che quella meravigliosa e triste storia d’amore non è lui a raccontarla. La decisione di impossessarsene e farla sua lo porterà al successo, ma anche a serie conseguenze. Il vero autore del libro, interpretato da Jeremy Irons, si farà vivo, per rivendicare la sua opera. Il regista, l’esordiente Brian Klugman, scrisse la sceneggiatura di The Words dodici anni fa: «Ma il processo per arrivare alla produzione è stato lungo e tortuoso - dice Klugman -. Agli inizi non è stato facile trovare un produttore. “The Words” è una di quelle storie intimistiche che poco appeal hanno sull’industria del cinema di oggi. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta, abbiamo trovato chi ha creduto in noi». A credere in questo progetto è stato per primo Bradley Cooper, star in ascesa nel panorama hollywoodiano, conosciuto anche da noi per la commedia «Una notte da leoni».
Plagio, storia d’amore, agnizione, guerra e colpi di scena sono solo strumenti secondari, insomma, di una pellicola che vuole soprattutto smascherare le sfumature più intime della condizione umana. Come d’altronde capita sempre quando sul grande schermo viene raccontata la storia di un professionista delle parole. Basti ricordare lavori come il recente «The raven», ispirato alla figura di Edgard Allan Poe (che qui ha il volto di John Cusack), o a «Secret window» che con il film di James McTeigue condivide la stessa atmosfera cupa e un grande interprete. In questo caso parliamo di Johnny Depp anch’egli alle prese con il blocco dello scrittore, così come immaginato da uno che - per fortuna nostra - non ha mai avuto simili problemi: Stephen King. In entrambi i casi, i racconti virano più sul thriller psicologico che non sull’analisi dell’arte del creare storie e dell’affabulazione.
Compito che invece era riuscito con agilità a Curtis Hanson, che nel 2000 ha diretto Tobey McGuire e Michael Douglas nell’appassionante «Wonder boys». Tratto dal romanzo di un altro scrittore di successo, Michael Chabon, il film racconta la storia del professor Grady Trip (Douglas) in crisi creativa. Sono passati sette anni dal suo ultimo romanzo e ne sta scrivendo uno monumentale che non riesce però a finire. Il suo migliore allievo è James (McGuire), mattoide inaffidabile, lo costringerà a un confronto serrato che, alla fine, produrrà i suoi benefici effetti anche sull’attempato professore di creative writing (che ironico paradosso).
I film, sul genere, però sono talmente numerosi che rimandiamo il cinefilo appassionato a guide ben più autorevoli. Qui ci preme soltanto ricordare il film che meglio di ogni altro ha saputo raccontare i rischi del plagio e il fascino della creazione letteraria. Stiamo parlando di «Scoprendo Forrester» di Gus Van Sant (2000). L’agorafobia del protagonista (uno stroardinario Sean Connery) fa pensare immediatamente al Salinger del «Giovane Holden». Qui Van Sant, però, vuole raccontare con garbo e rigore l’eterno confronto tra il vecchio e il nuovo. Disegna insomma il passaggio di testimone da una generazione all’altra di maestri della scrittura creativa.
E il pregio del film è tutto nell’orgoglio del protagonista (un giovane di colore, Robert Brown, proveniente dalla più povera periferia newyorkese) che non si pasce nel fresco status di stella nascente della letteratura e proietta il suo incredibile genio verso impieghi più austeri e concreti.
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