Con l’uscita al cinema del film Il cattivo poeta del debuttante regista Gianluca Jodice, la controversa e affascinante figura di Gabriele D’Annunzio torna a far parlare di sé.
Incentrata sugli ultimi due anni di vita del poeta, l’opera racconta di come il regime fascista mise il vate sotto rigida sorveglianza attraverso l'invio di una spia al Vittoriale, il giovane segretario federale di Brescia, Giovanni Comini (l’ottimo Francesco Patanè). Allo scopo di scongiurare la manifestazione di disappunto per le scelte del Duce, il ragazzo monitora ogni attività di D’Annunzio e spedisce regolari report ai superiori. Nel protrarsi della vicinanza col poeta, però, inizia a subirne l’ascendente e, dalla cieca obbedienza agli ideali del Fascismo, passerà all’osservazione critica della loro messa in atto.
Il grande valore aggiunto di questo progetto cinematografico sta nell’ambientazione di assoluto fascino: la casa-museo in cui D’Annunzio visse i suoi ultimi 15 anni, il Vittoriale, sul Lago di Garda.
L’idea che gli attori si muovano esattamente in mezzo agli arredi reali dell’epoca e agli oggetti dannunziani rende la narrazione molto più incisiva. Inoltre, “Il cattivo poeta” si nutre di una ricerca filologica encomiabile: ogni singola frase pronunciata da D'Annunzio nel film è l’esatta trasposizione di sue parole scritte o dette in pubblico.
Castellitto è bravissimo non solo nel dare luogo a un’interpretazione mimetica ma a tratteggiare con poco la grandezza di un eroe tragico e intimamente disperato perché minato nel fisico, dedito all’abuso di cocaina e amareggiato per l’emarginazione politica. Il rischio di restituire l’eccentricità del personaggio con toni troppo sopra le righe era evidente, ma è stato aggirato con grande maestria, attenzione e sobrietà. Del resto, il D’Annunzio in questione non è quello della stagione in cui a una vita erotica sfrenata corrispondevano slanci lirici sublimi. Questo è un uomo isolato e silenziato, inviso a un regime che schiaccia gli oppositori eliminandoli fisicamente o fiaccandone la libertà di pensiero.
“Il cattivo poeta” ci mostra un D’Annunzio drogato e stanco ma anche in grado di coltivare l’ironia come antidoto alla malinconia e di inneggiare al dissenso come ultimo vessillo di libertà.
La prolungata cattività in una gabbia dall’orizzonte limitato, infatti, non ha piegato la statura morale di un gigante della passione civile. Mai domo seppur rinchiuso in un mausoleo da vivo e mai rassegnato all'irrilevanza, D’Annunzio profetizza con grande lucidità l’esito amaro dell’alleanza tra Hitler e Mussolini. L'ipotesi del film è che tale lungimiranza gli sia stata fatale e che la morte sia da imputare ad un "provvidenziale" avvelenamento.
Il film funziona laddove si concentra sul controverso letterato, meno nei momenti dall’atmosfera avatiana in cui va in scena una sottotrama romantica (inventata) tra il giovane federale e una donna più grande.
Alcune scene sono davvero suggestive per la simmetria metaforica con cui si avvicendano: Mussolini nutre il proprio complesso di superiorità specchiandosi in una folla delirante, il poeta pronuncia scomode verità davanti a pochi reduci che ascoltano in rispettoso silenzio.“Il cattivo poeta” conquista in itinere ma resta cinematograficamente un po’ acerbo. Avrebbe brillato di più se fosse stato pensato, fin dall’origine, come film tv da prima serata Rai.
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