«L'arte senza Dio», si poteva tranquillamente intitolare questo libro sullo stato delle discipline artistiche che oggi sembrano mettersi a disposizione del sacro col solo diabolico scopo di profanarlo. Colpevoli gli artisti, ovvio, colpevole il clero alto e basso che commissiona chiese, quadri, sculture, musiche dissacranti e, sebbene in misura minore, colpevoli i laici che simili opere applaudono o subiscono senza fiatare.
Invece Cristina Siccardi ha scelto un titolo neutro, L'arte di Dio (Edizioni Cantagalli), lasciando al sottotitolo Sacri pensieri, profane idee il compito di far sospettare il contenuto. Il compito di portarlo qui alla luce me lo prendo io, cominciando con lo sfoltire la pletorica lista di intervistati le cui dichiarazioni compongono il libro: perché riesumare il cardinale Bartolucci morto da quattro anni? Perché non asciugare domande e risposte in modo da evitare l'esagerato numero di 464 pagine? Perché non risparmiare al lettore, che forse sarà un conservatore ma certo non un duca spagnolo del Seicento, il profluvio di titoli pomposi? La lunga prefazione è ingombra di Professori, Professoresse, Architetti, Maestri, Monsignori, Dottori: il massimo lo si raggiunge col Professor Don Roberto Spataro Sdb, valente latinista la cui autorevolezza viene minata, non aumentata, dall'overdose di maiuscole. Si rischia l'effetto comico voluto da Manzoni quando nei Promessi sposi cita il governatore dello Stato di Milano: «Illustriss. et Eccellentiss. Signore il Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, eccetera».
Alla fine l'intervento più illuminante è quello di un personaggio che non ha bisogno di titoli né di presentazioni: Vittorio Sgarbi. Guarda caso di tutti gli interpellati è il meno mistico, cattolico culturale e non praticante. La sua è la distanza giusta per cogliere il panorama dell'apostasia, fenomeno drammatico che dall'interno della Chiesa chierici e laici faticano a mettere a fuoco. «La religione cristiana è diventata un fatto puramente convenzionale, di tradizione: è una credenza più che una fede, più un costume che una convinzione. Rimangono i simulacri della religione dei padri ma la società è scettica. Gli architetti non fanno altro che interpretare la decadenza di una società che ha perso il sentimento di Dio. Gli architetti non sono la causa, sono l'effetto».
Dunque Fuksas, autore della chiesa più nichilista del mondo, l'ecomostro di Foligno perversamente dedicato a San Paolo Apostolo, potrà pure sognare di essere il malizioso belzebù dell'architettura italiana, ma è solo un povero untorello, il traduttore in cemento della miscredenza dei vescovi. Quando Portoghesi progetta una moschea sviluppa schemi tipicamente islamici, quando un architetto progetta una chiesa si guarda bene dallo sviluppare schemi tipicamente cattolici (cupole, campanili...) e «realizza invece una scatola da scarpe: quindi non c'è una committenza». Vittorio nostro fa nomi e cognomi e spicca quello del cardinal Ravasi che, promuovendo artefici quali Calatrava, Piano e Kounellis buonanima, ha mostrato una «visione idolatrica, totalmente asservita all'arte avulsa dai temi di carattere divino». Ravasi si guarda bene dal commissionare alcunché a Giovanni Gasparro, il massimo pittore vivente di arte sacra non dissacrante, autore del ciclo pittorico in assoluta controtendenza (molto iconico e liturgico) di San Giuseppe Artigiano all'Aquila. Anche lui intervistato nel libro. Teologicamente ferrato com'è, definisce le opere d'arte che piacciono ai prelati «manifestazioni gnostiche del solipsismo soggettivista», un modo elegante di dire che alla Cei hanno cambiato religione: dal culto di Dio a quello dell'Io.
Per Mattia Rossi, studioso di canto gregoriano e musica sacra, è tutta colpa del Concilio Vaticano II. Molti cattolici credono, o forse fingono di credere, che la protestantizzazione liturgica post-conciliare non sia frutto di quell'ormai lontana assise, ma della sua malevola interpretazione. Rossi non è di tale pietoso avviso: «Ciò a cui assistiamo arriva dal Concilio Vaticano II e dalla sua lettera: il germe della rivoluzione, infatti, è nero su bianco nei documenti conciliari». E giù le indispensabili citazioni, e le convincenti chiose, riferite al gregoriano eppure valide anche per altre forme dell'arte che fu di Dio.
Rossi è pessimista («Un tempo la Chiesa interveniva condannando e correggendo; oggi incentiva e coltiva la distruzione») almeno quanto Sgarbi che alla domanda dell'autrice sulla speranza di fermare le tendenze iconoclaste e apostatiche, risponde: «No, nessuna speranza».E allora com'è che sono uscito dalla lettura di questo libro meno disperato di come vi sono entrato? Semplice: la verità rende liberi.
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