"La cognizione del dolore" e la lettura come piacere

Il solo vero romanzo europeo del '900 italiano è molto citato e poco gustato. Ecco perché

"La cognizione del dolore" e la lettura come piacere

Come si scrive un capolavoro? Il capolavoro, intanto, deve friggere al sole della disciplina. Così l'Ingegnere alla sorella, Clara Gadda, il 29 settembre 1937. «Non mi sposerò mai ed è inutile che ti disturbi e ti affanni per questo... Sono sistematissimo, perché spendo sempre meno di quello di cui posso disporre: ho 100, spendo 90. Non fumo, non bevo, non mi lascio imbarcare in complicazioni di nessun genere: qualche pranzo offerto (in ricambio), un taxi a una signora con cui si è stati da altri, ed è tutto... Sono singolarmente favorito nell'economia dalla assoluta noia che i divertimenti destano in me (cinema, teatri, varietà.) Neppure vado mai al caffè. Solo libri: e qualche concerto. Molte passeggiate a piedi, che mi consumano i tacchi delle scarpe (15 lire ogni 3 mesi per la risolatura)». Vita monastica, niente fumo, niente vino, passeggiate corroboranti, tirchieria salutare, qualche avventura erotica ma nessuna moglie, per carità, non capirebbe l'ossessione da speleologo dei linguaggi: ecco l'autobiografia dello scrittore di capolavori.

Come si sa, l'origine della Cognizione del dolore, il capolavoro di Gadda (lo dice lui: alla domanda «Tra i suoi libri, quale le sembra il più importante?», segue replica, «Mah... forse La cognizione del dolore»), è la morte della madre, Adele Gadda Lehr, spirata il 2 aprile 1936 («Mi ha lasciato in un grande dolore e in una disperata solitudine», scrive lo scrittore a Gianfranco Contini). Da lì, la scrittura mesmerica, catatonica, della Cognizione, che esce a puntate, tra il 1938 e il 1941, su Letteratura, la rivista diretta da Alessandro Bonsanti, e infine, monolite romanzesco, il menhir della letteratura italiana del Novecento, in volume, per Einaudi, nel 1963, a Gadda già plurisessantenne, già celebre e celebrato - Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, uscito per Garzanti, fu un successo di pubblico, «all'inizio del 1958 può vantare tre edizioni e oltre 10.000 copie vendute» - già tramutato da rospetto ingegnere a «una specie di Lollobrigido, di Sofio Loren».

Il libro fu esaltato da tutti - «La cognizione del dolore riemerge dopo oltre vent'anni, e si pone naturalmente, senza sforzo, alla punta della letteratura attuale», scrive Guido Piovene - e vinse, nel tripudio di timori di Gadda, che si sentiva «una pupazza agitata dal tirannico volere altrui», «un cencio che svolazza nel buio», il Premio Formentor. Fragrante testimonianza di quei giorni è l'intervista rilasciata alla Rai nel 1963. Gadda si trincera in uno spudorato pudore. Per spiegare la ragione del titolo del suo romanzo, La cognizione del dolore, inforca gli occhiali, abbassa lo sguardo, legge un foglio. Chiede perdono. «Il titolo è troppo lontano da ogni forma di gioia e d'illusione che mi possa valere il consenso di chi deve pur vivere: di ciò chiedo perdono a coloro che vivono e che ancora vivranno». Perché implora - voluttuosamente - perdono, Gadda? Perché «cognizione è anche il procedimento conoscitivo, il graduale avvicinamento a una determinata nozione. Questo procedimento può essere lento, penoso, amaro, può comportare il passaggio attraverso esperienze strazianti della realtà». Scrivere è dire il dolore come non è mai stato detto, straziare la realtà, tramutare i verbi in sentenze di marmo, narrare la «scemenza del mondo», la «bamboccesca inanità della cosiddetta storia, che meglio potrebbe chiamarsi una farsa da commedianti nati cretini e diplomati somari» (così la grottesca e struggente chiusa della Cognizione, dal titolo L'editore chiede venia del recupero chiamando in causa l'autore, in cui Gadda sfotte, serissimo, se stesso).

Gadda, nipote geniale del Manzoni - tra i personaggi dei Promessi sposi sentiva una ironica complicità con Don Abbondio, «il quale non ha altro torto di fronte alla morale illustre se non quello di aver ceduto alla violenza e al terrore di questa violenza» - che sotto il velo di Maya della Provvidenza riteneva che la Storia fosse un tritacarne e che il male fosse il suo scudiero (ripassatevi la Storia della colonna infame poi ci risentiamo), cuginetto di Carlo Dossi, scrive il vero, il solo romanzo pienamente europeo del Novecento italiano, che sta al fianco del Doctor Faustus di Thomas Mann, del caos glossolalico di James Joyce, dell'opera di William Faulkner - con cui condivide l'ossessione per le genealogie e le sferzate linguistiche -, delle ubriacature lessicali di Malcolm Lowry. Il problema è che non ci crediamo. Tutti citano Gadda con deferenza, come si cita la reliquia di un santo di cui ignoriamo l'entità dei prodigi, ma nessuno lo legge. Una edizione economica Garzanti della Cognizione del dolore, pubblicata vent'anni fa, sentiva l'urgenza di specificare, a mo' di sottotitolo, «Un capolavoro del Novecento»; da anni l'Ingegnere è ostaggio degli accademici, è il Frankenstein della critica italiana.

Ne è un esempio la mostruosa edizione stampata da Adelphi (pagg. 384, euro 24), per la cura di Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudio Vela: a 210 pagine di romanzo fatto&finito ne seguono 144 di apparati, note e noterelle. Dove, sostanzialmente, non ci sono inediti se non le «due redazioni di una risposta scritta di Gadda a una intervista riguardante i suoi rapporti con la madre» per Oggi, che non risulta pubblicata. Insomma, il tomo è un mattone che non agevola la lettura di un testo linguisticamente intricatissimo, la cui trama si riassume in una frase: siamo nel 1934 e don Gonzalo Pirobuttirro, che abita a Lukones, un villaggio del Maradagàl, attende la visita di un dottore; dicono che don Gonzalo, spesso lontano da casa, sia scorbutico e violento, che maltratti la madre, la quale, alla fine del libro, incompiuto, è nella sua camera, moribonda, dopo una aggressione compiuta non si sa da chi. L'esercizio, piuttosto, è quello di leggere Gadda nel proprio studio, da soli, ma soprattutto di leggerlo a scuola, ogni giorno, usandolo come un talismano, sostituendo la Cognizione del dolore alle lagne di Pavese, alle arlecchinate di Calvino, al civismo spompo di Pasolini.

Parte seconda, capitolo V: «Non vide più nulla. Tutto fu orrore, odio. Il tuono incombeva sulle cose e le fulgurazioni dell'elettrico si precipitavano all'ira, grigliate in rinnovati attimi dalle stecche delle gelosie chiuse, nell'alto. Ed ecco lo scorpione, risveglio, aveva proceduto, come di lato, come a raggirarla, ed ella, tremando, aveva retroceduto dentro il suo solo essere, distendendo una mano diaccia e stanca, come a volerlo arrestare. I capegli le spiovevano sulla fronte, non osava dir nulla, con labbri secchi, esangui: nessuno, nessuno l'avrebbe udita, sotto il fragore». Basta questo, basta leggere, questo è Gadda, musica, puro bagliore.

Vi diranno che non potete capire, che per gli studenti Gadda è troppo complicato, è troppo. Non c'è bisogno di capire. Basta percepire la grandezza. La letteratura è una vertiginosa parete di rocce, senza appigli. L'assoluto non ha misura.

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