Conoscere per rifiutare. Leggere "Mein Kampf" vero antidoto alle tossine del nazionalsocialismo

Razzismo, antisemitismo, lotta per lo spazio vitale: tutte le aberrazioni del nazismo hanno una base teorica nel testo del Führer E queste pagine ci fanno comprendere che non fu un fenomeno isolato dalla storia

Conoscere per rifiutare. Leggere "Mein Kampf" vero antidoto alle tossine del nazionalsocialismo

Da oggi, per la Biblioteca storica de Il Giornale, sarà in edicola una collana dedicata alla storia del Terzo Reich. La collana si articolerà in 8 volumi, con uscita settimanale al prezzo di euro 11,90 oltre al costo del quotidiano. I primi quattro volumi propongono a puntate uno dei più completi saggi mai scritti sulla storia del nazismo: Storia del Terzo Reich di William Shirer. Il primo titolo in edicola sarà Hitler e il Terzo Reich. Ascesa e trionfo. In omaggio con il primo volume, sarà distribuito il testo originale di Mein Kampf di Adolf Hiter, nell'edizione critica a cura del professor Francesco Perfetti. Pubblichiamo uno stralcio dell'introduzione.

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Proprio come antidoto alle tossine ideologiche presenti in quell'opera appare, oggi, utile, se non addirittura necessaria, una lettura meditata e non solo come documento storico del Mein Kampf e di altri testi del dittatore tedesco, a cominciare dai suoi prolissi discorsi politici fino ai monologhi delle Conversazioni di Hitler a tavola 1941-1942 pubblicati a cura dello stenografo Henry Picker e ai colloqui contenuti in Hitler mi ha detto di Hermann Rauschning, un conservatore prussiano che era stato per qualche tempo un seguace del nazionalsocialismo prima di emigrare, nel 1936, negli Stati Uniti dove avrebbe scritto una delle prime e più illuminanti analisi del nazionalsocialismo intitolata La rivoluzione del nichilismo.

Solo una lettura sistematica effettuata con spirito critico può operare da contravveleno nei confronti di una costruzione teorica demagogica e tuttora pericolosa e, al tempo stesso, può consentire una spiegazione storica degli avvenimenti drammatici che hanno insanguinato l'ultimo scorcio della prima metà del secolo decimonono.

Pur con qualche significativa eccezione, per moltissimo tempo, la storiografia su Hitler e sul nazionalsocialismo si è concentrata, per un verso, sulla biografia umana e politica del dittatore tedesco e, per altro verso, sulla struttura, sull'organizzazione e sulle conseguenze del III Reich. Un tratto comune a lavori importanti e pregevoli come, per esempio, quelli di Hermann Rauschning, di Harold Laski, di Alan Bullock stava nel fatto che essi, studiando il Führer e la sua personalità, gli attribuivano una forte vena di follia o una buona dose di opportunismo e di istrionismo politico o, ancora, una notevole capacità demagogica innervata su una base di confuso nichilismo. In tal modo, però, essi finivano per negare, sia pur implicitamente, l'idea stessa che Hitler potesse aver elaborato una pur aberrante, ma vera e propria, dottrina politica destinata a sostanziare il movimento nazionalsocialista. Si trattava di una tendenza largamente diffusa e non contraddetta neppure da una successiva fase di ricerche le quali ammettevano l'esistenza di una ideologia nazionalsocialista e ne rintracciavano, magari, i germi nella cultura politica e nelle vicende storiche delle popolazioni germaniche, ma che negavano, al tempo stesso, il fatto o la possibilità che Hitler, in prima persona, avesse elaborato questa ideologia o vi avesse, comunque, apportato un contributo sostanziale.

Un primo importante cambiamento di prospettiva storiografica si ebbe nel 1963 con la pubblicazione da parte dello storico tedesco Ernst Nolte del volume Der Faschismus in seiner Epoche (tradotto in italiano con il fuorviante titolo I tre volti del fascismo) che proponeva una interpretazione del fascismo in chiave epocale e «transpolitica»: una interpretazione la quale, se, per un verso, appariva discutibile implicando troppe disinvolte dilatazioni semantiche e troppo forzate generalizzazioni, per altro verso richiamava surrettiziamente l'attenzione sulla inadeguatezza di tutte quelle linee storiografiche le quali, condizionate comprensibilmente dal giudizio etico-politico, impedivano una piena comprensione del nazionalsocialismo come fenomeno storico, e non già o non solo come esplosione improvvisa di follia individuale e collettiva, sottostimandone, al tempo stesso, la dimensione dottrinaria e ideologica.

Da quell'epoca molta acqua è passata sotto i ponti e numerose opere di ricerca storica o di approfondimento biografico hanno ormai riempito gli scaffali contribuendo a una lettura ben più approfondita di quanto non fosse stato fatto prima su questo drammatico capitolo della storia del Novecento, il nazionalsocialismo, e sul suo protagonista indiscusso e indiscutibile, Adolf Hitler. E si tratta di lavori scritti da studiosi di vario orientamento culturale e metodologico i quali, tutti, però si sono preoccupati di sottolineare il ruolo e l'importanza della costruzione ideologica hitleriana e di metterne in luce la potenziale pericolosità. Basterà ricordare, fra i tanti, i saggi di Karl Dietrich Bracher, che, muovendosi fra descrizione storica e analisi sistematica, individuano le radici lontane del nazionalsocialismo e ne seguono il consolidarsi e affermarsi. Oppure, fra le tante opere più specificamente dedicate al dittatore tedesco, sarà sufficiente rammentare la splendida biografia dello storico e giornalista Joachim Fest, apparsa nel 1973, insuperata soprattutto nella indagine psicologica del protagonista, che dal punto di vista intellettuale appare come il prodotto tipico di una semicultura o sottocultura capace di assorbire e di tradurre in una pericolosa unità dottrinaria le pulsioni antisemite della Vienna prebellica, il torbido biologismo razzistico allora in voga in certi ambienti, la suggestione della mitologia nordica, le crepuscolari riflessioni sulla fine della civiltà e il tramonto dell'Occidente, i sogni ricorrenti del pangermanesimo. O, ancora, la più recente e accurata biografia di Hitler dovuta alla penna dello storico inglese Ian Kershaw, pubblicata in due tomi nel 1998 e nel 2000 e sintetizzata in un solo volume nel 2008, nella quale viene ribadita l'importanza del dittatore tedesco nella elaborazione teorica dell'ideologia nazionalsocialista e nella costruzione del regime.

La lettura approfondita e lo studio attento del Mein Kampf sono stati all'origine, oltre naturalmente alle indagini più propriamente documentarie e storiografiche, di una ricerca storica che è ormai pervenuta a un buon livello di raffinatezza critica. Nel Mein Kampf, infatti, pur in uno stile confuso e ridondante, sono rintracciabili tutti gli elementi che contribuiscono, nel loro insieme, a creare una vera e propria Weltanschauung, cioè a dire una concezione del mondo. A cominciare, proprio, dal razzismo che ne costituisce il terreno di germinazione. Nella prima parte del Mein Kampf quella che venne pubblicata con il titolo Resoconto vi è un intero capitolo, Popolo e razza, che getta le basi della concezione biologica del razzismo, propria di Hitler e del nazionalsocialismo: una concezione che partendo dal presupposto dell'esistenza di una razza superiore, la «razza ariana», e dalla convinzione che gli incroci tra elementi di valore diverso, essendo contro natura, non possano che portare allo snaturamento della razza superiore finisce, di fatto, per postulare la necessità di un antisemitismo radicale perché la «razza ebraica» sarebbe la vera e propria antitesi di quella eletta. Ma, al di là di questo capitolo che giustifica l'antiebraismo facendo persino riferimento al celebre falso storico rappresentato dai Protocolli dei Savi di Sion, la dimensione razzista e antisemita percorre tutto il Mein Kampf.

L'odio di Hitler nei confronti degli ebrei era, in un certo senso, diverso dall'antisemitismo dell'epoca teorizzato, in chiave razzistica o economica, da molti autori, prevalentemente francesi o inglesi, che certamente egli aveva, quanto meno, sfogliato: esso, infatti, si ricollegava e, sotto questo profilo, era assai più pericoloso ed estremo a una precisa concezione della storia come processo del Lebenskampf, cioè la lotta per l'esistenza, di un popolo. Nella visione hitleriana i protagonisti o, se si preferisce, le forze attive e operanti della storia sono i popoli e le razze, cioè a dire i raggruppamenti etnico-biologici anziché, come avviene nella concezione marxista della storia, raggruppamenti economico-sociali. I popoli vogliono conservare se stessi e preservare la purezza della razza, ma poiché lo spazio è limitato mentre l'istinto di conservazione non ha limiti, ne consegue che essi sono costretti a combattere continuamente fino a fare di questa lotta il contenuto della propria esistenza. Se, infatti, la popolazione cresce e lo spazio si restringe diventa necessaria la guerra per trovare un nuovo «spazio vitale»; se, al contrario, la popolazione diminuisce o rimane costante, altri popoli diventano più forti e, in tal caso, sopravviene, ancora una volta, la guerra per sancire il diritto del più forte e la perdita dello «spazio vitale» per il più debole.

In questa visione dialettica della storia come Lebenskampf per il Lebensraum, come lotta per lo spazio vitale, gli ebrei rappresentavano, secondo Hitler, un fattore di disturbo: essi infatti essendo naturalmente «internazionalisti» e all'origine di tutte le ideologie, i programmi, i movimenti politici internazionali, dal marxismo al socialismo, dal pacifismo alla democrazia impedivano il Lebenskampf e annullavano in tal modo il senso stesso della storia.

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