Se al solo udire il nome di accademia sbadigliate, siete in buona compagnia. Bisogna essere vecchi dentro per vibrare per un poema accademico, un dipinto accademico, un film accademico. E allora per quale ragione il duce del fascismo decise di creare l'ennesimo cenacolo di dotti, scatenando una corsa alla feluca? Beh, perché quelli di Mussolini erano accademici con il cinturone. E l'istituzione culturale che li riuniva, la più importante del regime. Nata con regio decreto nel 1926, divenuta operativa tre anni dopo, l'Accademia d'Italia era stata promossa da Gentile. La sede scelta fu la Farnesina: era infatti ad un passo dai Lincei, l'associazione di studiosi rivale infestata di antifascisti che fu prima indebolita e poi del tutto assorbita. Rispetto ai lincei, 358 membri, la nuova struttura ne aveva sessanta e comprendeva anche la classe di lettere e arti. Gli immortali - tutti italiani, tutti uomini, nemmeno un ebreo - li nominava Mussolini. Ricevevano un lauto stipendio, indossavano una tenuta di gala con ricami d'oro e d'argento, godevano del titolo di Eccellenza e il loro presidente era membro del Gran consiglio del fascismo. Al primo incontro ufficiale, che si svolse in Campidoglio, il tripudio di medaglioni e spadini conquistò tutti. Il più elegante risultò essere Marinetti, che aveva fatto alterare la divisa dal suo sarto.
Presidente nel 1929 fu Tittoni e dall'anno successivo Guglielmo Marconi. Nel 1937, quando Marconi morì, fu sostituito per un anno da D'Annunzio, poi toccò a Federzoni, che diede un giro di vite fascista all'istituzione. Ultimo a guidare gli accademici d'Italia fu Gentile, dal '43 fino alla morte, nell'aprile del '44, quando fu assassinato dai partigiani.
Dopo la guerra, l'Accademia fu liquidata. Portarono la feluca lo storico Volpe, Pirandello, Marinetti, Mascagni, Ojetti, il celebre orientalista Tucci, il fisico Fermi Mancarono l'occasione di prendere le distanze dal fascismo, perché «non correre dietro a un seggio accademico non significava esprimere una netta ostilità al regime», nota Gabriele Turi nella prima ricostruzione organica della storia dell'Accademia d'Italia, Sorvegliare e premiare (Viella, pagg. 224, euro 28). Fra i non accolti fin dall'inizio vi fu Ungaretti, «che solo nel '42 vedrà ricompensata la sua lunga corte a Mussolini». Escluso fino al '34 anche lo storico Gaetano de Sanctis, esponente di una storiografia per la quale «tutti i popoli nemici di Roma valevano più dei Romani». Quelli che entrarono «dettero un contributo alla lotta antisemita, sostennero la tesi del primato italiano fatta propria dal regime e avviarono il processo di fascistizzazione dell'università». Già nel '34 la divisa di gala e il bicorno tornarono nell'armadio: «l'uniforme di prescrizione è, anche per gli accademici, quella fascista: giacca orbace camicia nera calzoni et stivaloni neri fez et cinturone», recitava un eloquente telegramma; quattro anni dopo, fra gli immortali entrò in uso l'appellativo di camerata.
In compenso, visto che per mansuefare il genio riconosciuto è meglio mettere da parte il bastone (e il manganello) e preferirvi la carota, l'Accademia distribuì una quantità di premi in denaro, tanto ambiti durante il Ventennio quanto dannati e rimossi dopo. La lista dei beneficiati coinvolge figure del calibro di Ada Negri, Ardengo Soffici, Nicola Abbagnano, Natalino Sapegno, Emilio Cecchi, Federico Chabod e poi Gadda, Cardarelli, Sbarbaro, Buzzati, Montale, Silvio d'Arzo, Elsa Morante, Alvaro, Quasimodo, Vittorini, Zavattini... Spesso, come nel caso del poeta degli Ossi di seppia, si trattava di intellettuali in precedenza marginalizzati in quanto antifascisti. Il che ancora una volta dimostra che il regime di Mussolini sarà stato totalitario, ma più che annichilire i suoi oppositori preferiva stancarli con la tattica che adopera il pescatore con la canna, accorciando la lenza e poi tornando a rilasciarla.
Il che non toglie che quando il fascismo cadde, e le accuse agli ospiti della Farnesina si moltiplicarono, se ne videro delle belle. L'accademia non era fascista, protestarono le feluche, ma regia. Sarà, ma intanto leggiamo una pagina piuttosto interessante dei Taccuini di Ojetti: «La nuova divisa, coi ricami d'argento ridotti al minimo, è bella. Ma pesa e fa sudare. Perché l'ovatta messa dal sarto nell'imbottitura era nera, la mia camicia di seta bianca la devo gittar via ché è tutta macchie».
Solo un professore di tre cotte, qual è Gabriele Turi, poteva lasciarsi sfuggire un'allegoria così allettante senza approfittarne. Ma noi, che siamo solo giornalisti, possiamo darci sotto: a quanto pare, la divisa da accademico trasformava le camicie bianche in camicie nere.
Che poi anche la coscienza degli
accademici del duce fosse tutta macchie cominciò a intuirsi solo dopo che gli italiani, compresi quelli con la feluca in testa, furono invitati a distendersi su quel gigantesco lettino di psicanalista che fu l'8 settembre.
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