Essere «politicamente corretti» danneggia lo sviluppo scientifico. È questa, in estrema sintesi, la tesi sostenuta in un saggio (Science is not always «Self-Correcting») scritto da Nathan Cofnas e pubblicato dalla rivista americana Foundations of Science. L'autore è nato e cresciuto a New York, si definisce un «ebreo liberal dell'Upper West Side» e ha studiato filosofia alla Columbia University. Attualmente è l'unico dottore di ricerca del Dipartimento di Filosofia dell'Università di Lignan, a Honk Kong. Non ha proprio il physique du rôle del conservatore duro e puro, insomma, ma ciò che scrive manderà di traverso più di qualche cocktail nei salotti delle élite progressiste americane ed europee.
Il lavoro di Cofnas parte confutando un assunto che larga parte della comunità scientifica e dell'opinione pubblica danno per acquisito. E cioè che la scienza si «auto-corregga», abbandonando lungo il proprio percorso ipotesi che sono contraddette dall'evidenza empirica. Secondo Cofnas, infatti, troppo spesso considerazioni «morali» e «politiche» finiscono per influenzare la possibilità di accettare o divulgare il risultato di alcune ricerche, arrivando al paradosso di convincere alcuni uomini di scienza a perseverare nelle proprie (errate) convinzioni quando queste sono considerate in linea con i propri obiettivi politici e le proprie (autocertificate) buone intenzioni.
Insomma, invece di seguire la strada del falsificazionismo popperiano, che imporrebbe agli scienziati di accettare il duro responso dei fatti ed elaborare una teoria migliore della precedente, gran parte di loro si comporta come i grigi burocrati della scienza descritti dall'epistemologia kuhniana, pronti a tutto pur di difendere il «paradigma» più influente della propria generazione. Quasi inutile sottolineare che molti di questi paradigmi, oggi, siano indissolubilmente intrecciati alla religione del «politicamente corretto» imperante in Occidente.
Il lavoro di Cofnas si concentra in particolare sul tema delle ricerche sull'intelligenza e sulla sua distribuzione tra i vari gruppi, sociali ed etnici. Argomenti da sempre osteggiati perché considerati «moralmente sbagliati o pericolosi» e quindi mai indagati con la dovuta attenzione, proprio per il timore di approdare a risultati scientificamente rigorosi ma troppo politicamente scorretti e quindi non divulgabili.
Per Alex Berezow, che ha rilanciato la ricerca con un articolo sul sito dell'American Council on Science and Health, Cofnas ha ragione e c'è più di qualche caso concreto che lo dimostra. Secondo Berezow, «non solo gli intellettuali si rifiutano di abbandonare le proprie convinzioni politicamente corrette anche davanti all'evidenza», ma sono pronti a stroncare la carriera di chiunque si dimostri poco meno che allineato.
Il caso più eclatante, almeno sotto il profilo mediatico, è certamente quello di Lawrence Summer, ex rettore della prestigiosa università di Harvard, cacciato a furor di popolo per aver sommessamente sostenuto che potrebbero esistere delle differenze di fondo tra uomini e donne nello studio della matematica. Da quel momento nessun ricercatore con qualche aspirazione di carriera ha seriamente riaffrontato il tema delle differenze, che pure esistono, tra il cervello femminile e quello maschile. Una vittoria netta della politically correctness, una sconfitta altrettanto chiara della neuroscienza.
Berezow cita almeno altri due ambiti in cui la scienza ha scelto acriticamente di farsi da parte per lasciarsi contaminare e limitare da giudizi morali o politici. Il primo è quello della climatologia. L'unica cosa che si può sostenere, in qualsiasi dibattito pubblico o in qualsiasi rivista «scientifica», è che gli esseri umani siano gli unici indiscussi responsabili di qualsiasi evento negativo accada sul nostro pianeta. Chiunque provi, numeri alla mano, a contestare questa affermazione viene tacciato subito di «negazionismo», al pari di chi afferma che i campi di concentramento nazisti non sono mai esistiti. Eppure, scrive Berezow, proprio «la climatologia beneficerebbe di un approccio più scettico sul tema», magari apportando correzioni a quel mantra sul «riscaldamento globale» che appare oggi un ibrido tra inferenze statistiche e suggestioni ben propagandate.
Altro grande tabù del perbenismo progressista è quello che riguarda i «senza tetto». Le discussioni sugli homeless negli Stati Uniti sono state sempre influenzate dalla retorica della povertà come unica causa del fenomeno. Eppure una ricerca della National Coalition for the Homeless ha dimostrato come il 38% dei «senza tetto» sia dipendente dall'alcol e il 26% da sostanze stupefacenti. Sono proprio le dipendenze scrive il rapporto la causa principale che genera il fenomeno degli homeless.
Ma a noi hanno sempre spiegato che era tutta colpa della natura intrinsecamente malvagia del sistema capitalista, che non concede una seconda chance agli sconfitti dal mercato. E proprio sulla base di questa convinzione si sono spese ore di dibattiti e qualche miliardo di soldi pubblici. Oltre a danneggiare la scienza, il politicamente corretto ci ha reso tutti più poveri.
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