Marina non sbaglia mai. Nel 1925 lo definisce così. «Boris Pasternak - è una cosa certa come il Monte Bianco». Nel 1933, scrive su una rivista. «Il fatto che Pasternak sia nato uomo, è un puro equivoco. Pasternak è un albero». Poiché è un'altra creatura - è montagna, è albero - Boris Pasternak, tra i poeti decisivi di ogni tempo, ha guardato l'uomo con anormale profondità. L'intuizione di Marina Cvetaeva risuona nelle parole di Angelo Maria Ripellino, che nel 1957 ha curato una storica raccolta delle Poesie di Pasternak, costantemente ristampata da Einaudi: «c'è nelle sue pagine un'aria da giorno della creazione», il poeta è «come uno stralunato che veda ogni cosa per la prima volta» e la sua poesia «ha qualcosa di taumaturgico, di curativo, come le erbe medicinali».
Dopo un rapporto epistolare durato 13 anni, Marina Cvetaeva e Boris Pasternak si incontrano per la prima volta a Parigi, nel 1935. Lui, obbligato a partecipare a un patetico «Congresso per la difesa della cultura» («Stalin aveva fatto letteralmente prelevare Pasternak dalla casa di riposo di Uzkoe dove il poeta cercava sollievo a un grave stato di depressione», Serena Vitale), «con il morale a pezzi» e «un'insonnia che durava da quasi un anno», darà, in pubblico, in una manciata di minuti, la più vasta definizione di cosa sia la poesia («La poesia rimarrà sempre eguale a se stessa... e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra; essa sarà sempre troppo semplice perché se ne possa discutere nelle assemblee»). Lei, Marina, recensì il «non incontro» con quell'uomo-sonnambulo. L'ultima volta fu in Russia, nel 1940. «Abbiamo camminato sotto la neve e sulla neve - fino all'una di notte - e mi è passato tutto - come un giorno mi passerà - tutta la vita», scrive Marina, che l'anno dopo si uccide, impiccandosi.
«La Cvetaeva era una donna dall'animo virile, attiva, decisa, combattiva, indomabile. Nella vita e nell'arte si lanciava in modo impetuoso, avido e quasi rapace verso ciò che è definitivo... e per raggiungerlo si spinse lontano e superò ogni altro». Pasternak capisce che quella morte certifica la morte di un mondo intero: il mondo dei poeti che fecero la rivoluzione artistica, il mondo di Vladimir Majakovskij, di Velemir Chlebnikov, di Sergej Esenin, di Osip Mandel'stam. Tutti morti. Da quella morte, che pare la morte stessa della poesia russa, nel 1945, Pasternak dà vita a una nuova opera, riassuntiva, definitiva. «Il desiderio di cominciare a dir tutto fino in fondo». Così la definisce. Dopo dieci anni, inframmezzata dalle traduzioni di Shakespeare e di Goethe, questa nuova opera, Il dottor ivago, è compiuta. L'opera è classica nella forma - guarda ai romanzi di Lev Tolstoj - ma sperimentale nella sostanza. Il romanzo, infatti, si chiude con due personaggi, Gordon e Dudurov, che «sfogliavano il quaderno degli scritti di Jurij». Il libro termina, per questo, con quel «quaderno» che raccoglie le Poesie di Jurij ivago, un libro nel libro, che è il «momento essenziale» del romanzo, di cui «la narrazione costituisce, a mo' di introduzione, la biografia del loro autore» (Clara Strada Janovic).
Pasternak, ormai, è davvero albero e montagna: irremovibile nella compassione per la terra e i cieli. Con una lingua limpida, sembra toccare il segreto ultimo della vita («Anche la vita è soltanto un attimo,/ soltanto un dissolversi di noi/ in tutti gli altri,/ quasi un dono loro offerto»). Al di fuori del tempo («Ciò che conta per lui è l'arte ed essa soltanto... non lo interessa neppure il risultato finale. La cosa principale è il lavoro, la passione per esso... La moglie fa fatica, bisogna procurarsi i soldi e in qualche modo vivere, ma lui non ne sa niente», ricorda il drammaturgo Aleksandr Afinogenov), il poeta che è sopravvissuto al massacro dello stalinismo, che pare essere morto e risorto più volte, in più forme, scrive poesie vertiginose come Il vento, dall'ingresso memorabile («Io non ci sono più e tu sei viva»), dove «tutti gli alberi insieme» si muovono, «come scafi di velieri.../ per trovare nell'angoscia le parole/ di una ninna nanna per te».
Ora, a un mese dalla morte di Vittorio Strada, Feltrinelli pubblica in un volume autonomo Le poesie di Jurij ivago (pagg. 132, euro 20) per la cura di Clara Strada Janovic, la moglie del grande esegeta di Pasternak. Un'epoca intera, così, di urla e di orrore, pare sconfitta sulla soglia di una poesia, Convegno. Siamo in una notte di neve («Lotti col tuo turbamento/ e mastichi madida neve»), la stessa che sigilla l'ultimo incontro tra Pasternak e Marina Cvetaeva. Il poeta ammira nella neve la donna della sua vita («Come se a mo' di ferro/ bagnato in tintura/ t'avessero fatto incidere/ il mio cuore») e quell'incontro è più duraturo di ogni rivoluzione, isola l'individualità dei due dal delirio della storia: «per sempre si è fissata/ la mitezza di questi tratti/ e perciò non importa/ se il mondo è crudele».
«Tu e io viviamo fuori dalla vita, siamo fuori - di noi», gli aveva scritto, Marina, nel 1925, trent'anni prima. Ancora una volta, il poeta scaglia gli occhi in un millennio venturo, oscuro. Una notte di neve ha disintegrato un secolo infernale.
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