Non tutti i fiumi vanno al mare. Alcuni fiumi vengono sterzati, strozzati, ridotti in acquitrino. Una fiumana di scrittori, vertiginosi, non riesce a sfociare nel mare del pubblico italiano. Come mai? Chiamiamola politica editoriale. Anzi, chiamiamola solo politica. Una specie di matta mattanza secondo cui alcuni scrittori sono proibiti mentre altri sono utili a ingrassare l'immaginario delle masse. Gli esempi, guardando oltre il balcone delle Alpi, sono tantissimi. Henry de Montherlant, ad esempio. Oppure il gruppo degli Ussari. Roger Nimier, Antoine Blondin, Jacques Laurent, Michel Déon. Fronte ampia, viso rettangolare e deciso, Michel Déon, classe 1919, famiglia abbiente il papà dirigeva i servizi di sicurezza per Luigi II, sovrano del Principato di Monaco va volontario alla Seconda guerra ed è il segretario speciale di Charles Maurras nella redazione dell'Action française. Già intransigente nella contraddizione, a Déon non piace lo scampanio dei nazi a Parigi, ma gli garba il governo Pétain. Romanziere precoce nel 1944, a 25 anni, il primo romanzo, Adieux à Sheila e di cui molti desiderano i servigi Coco Chanel e Salvador Dalí gli implorano di redigere la loro biografia Déon frequenta le aule di cristallo della letteratura con l'aristocratica foga di uno spadaccino. Negli Stati Uniti conosce William Faulkner l'amicizia sboccia dopo una delirante ubriacatura Saul Bellow e Billy Wilder. In Francia si allea agli Ussari, coagulando l'azione estetica con quella etica, di destra firma il Manifesto degli intellettuali francesi affinché la Francia mantenga il controllo sull'Algeria poi fa un figlio con Chantal Renaudeau d'Arc, lascia tutti, e per dieci anni si trasferisce in una piccola isola greca. Inappetente alle facili ambizioni degli intellettuali, dei «belanti politici, accademici smarriti, poeti da sottoprefettura», lascia la Grecia per Galway, Irlanda. Questa specie di incrocio tra Truman Capote e San Girolamo, preferisce le isole alle metropoli, l'isolamento ai gargarismi dei polemisti sotto spirito ideologico. Eppure: nel 1978 è eletto all'Académie française, al seggio numero 8, ma soprattutto è console del fittizio Regno di Auracanía e Patagonia. Autore dalla bibliografia muscolare oltre 40 volumi, coronati dal Cahier Déon, edito da L'Herne nel 2009, con contributi inchinati, tra gli altri, di Milan Kundera, Emmanuel Carrère, Yasmina Reza nel 1977 Un taxi color malva, romanzo del '73, trova traduzione cinematografica in un film di successo, con Peter Ustinov, Charlotte Rampling, Philippe Noiret. Il capolavoro di Déon, tuttavia, era uscito qualche anno prima, nel 1970, s'intitola Pony selvaggi, e viene riscoperto, ora, dalle edizioni e/o (pagg. 480, euro 18), inaugurando la pubblicazione organica di alcuni grandi romanzi del grande francese. Era ora perché Déon, colpevole di stare, evidentemente, dalla parte sbagliata, è stato poco tradotto in Italia, e male (a parte Un taxi color malva, pubblicato da Rusconi nel 1975, da noi sono passati La valle degli incanti, De Agostini, 1985, e il libro per ragazzi Tommaso e l'infinito, Emme, 1993). Ecco: Pony selvaggi è l'emblema di un romanzo degli Ussari. Velocità narrativa, rapacità cinematografica, confronto totale con la Storia. Il romanzo parte dal 1938, Cambridge, e racconta la storia di cinque amici, travolti dalla Seconda guerra. Il quinto di questi tesse le vicende intricate e intriganti a partire dall'abisso: abbiamo vissuto in mezzo alle fiamme, e ciò che avevamo di più caro è stato bruciato o inaridito». La claustrofobia dei romanzi di Sartre, le glossolalia di Robbe-Grillet e la giocoleria di Georges Perec svaniscono di fronte al libro muscolare di Déon, che all'affondo politico (micidiale l'analisi della fata morgana comunista: «Materialismo per materialismo, quello del comunismo aveva almeno il dubbio merito di essere franco e ispirato all'entusiasmo e alla fratellanza. Certo, non bisognava guardare troppo da vicino i suoi dirigenti, volponi tronfi e dispotici pronti a rinnegare se stessi, né i suoi intellettuali, prodighi del sangue degli altri») e alla violenza epigrafica («La filosofia della Storia conosce una sola morale: il successo. L'URSS viene assolta dall'eccidio di Katyn perché ha vinto la guerra») alterna schizzi spassosi (questo è Giovanni Papini: «il macrocefalo, affascinante da quanto era brutto, con un fisico da gargouille gotica e gli occhi ciechi e incavati, non emanava forse l'odore del diavolo con cui intratteneva rapporti, sia pure esclusivamente letterari?»). Il romanzo, che si snoda tra Inghilterra, Francia, Algeria, Italia (che bella l'Aden narcotica che «soffocava fin dal mattino sotto una campana di cielo bianco»), ha una vitalità conturbante. Il personaggio centrale del libro è Georges Saval, avido di avventure, turbato dalle spie, abbrancato alla volubile Sarah, che «viveva la propria morale, o più esattamente la morale della sua amoralità». Il ritratto più bello, però, è quello di Cyril Courtney, «occhi di un azzurro insondabile, sciatto con suprema eleganza, capace di presentarsi a un ballo in vestito da sera con i piedi nudi in sandali di cuoio, un moderno Ariel che portava scritto in fronte il destino del poeta», ricco, che guidava «una Bentley rosso sangue decappottabile», «faccia da angelo perverso», che un giorno ruba «un ritratto di giovane donna del Bronzino» dagli Uffizi con il desiderio di «psicanalizzarlo» e «aveva vissuto come aveva guidato la macchina, con la certezza di morire presto». Odora di vita, questo libro, e la vita non è di destra né di sinistra, è il gergo alchemico del genio. Ad ogni modo, Michel Déon, reflui dell'ideologia odierna, fa ancora paura. Un paio di mesi fa, la polemica: Déon, che è morto in Irlanda tre giorni dopo il Natale del 2016, non può essere sepolto a Parigi. Vicenda burocratica, dice la «sindaca» parigina Anne Hidalgo; sporco affare politico hanno detto diversi scrittori, da Michel Houellebecq a Amélie Nothomb e Milan Kundera. Déon fa paura perché non ha il cervello in embargo. Miserie della storia di oggi, incapace di leggenda. A noi bastano le prime pagine che il narratore pone all'ingresso di Pony selvaggi. Beati quelli che avevano perso tutto!... I carnai si sono rivelati un buon concime, e noi viviamo nell'abbondanza con l'unico timore di rimanerne soffocati.
La grande paura non è più avere fame, ma mangiare troppo. La grande paura non è più di non fare l'amore quando ci prende il desiderio, ma di farlo troppo, e prima o poi rimanerne disgustati». Soltanto gettati nel rischio possiamo amare. Oggi spadroneggia la noia.
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