La deriva fascista. Da rivoluzione a conservazione

Gli studi di Renzo De Felice mostrano come la classe dirigente fiancheggiatrice del regime ne erose la carica innovativa

La deriva fascista. Da rivoluzione a conservazione

Man mano che Renzo De Felice si avvicinava alla conclusione della sua opera su Mussolini e sul fascismo, ne apparivano sempre più evidenti la forza innovativa e la carica dirompente rispetto ai discorsi sviluppati fino ad allora dalla storiografia. Non si trattava di questioni di poco conto: il carattere «rivoluzionario» della cultura e della personalità di Mussolini; la coesistenza del «fascismo movimento» e del «fascismo regime» con anime diverse e per certi versi opposte; la dimensione e la durata di un massiccio «consenso» anche di fronte alla guerra; il carattere più autoritario che totalitario del regime; il riconoscimento di profonde differenze tra fascismo e nazionalsocialismo e via dicendo.A tali conclusioni De Felice era pervenuto proprio perché aveva relegato in soffitta i discorsi ideologici sul fascismo. Un grande studioso di storia della storiografia, Walter Maturi, scrisse, riferendosi alla prima fase di studi di De Felice, quella relativa al periodo rivoluzionario tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, che questo «giovane d'ingegno vivo e acuto» aveva «molto mordente critico» ed era «intransigente come un domenicano» pronto a fulminare con critiche impietose quanti usassero a sproposito il termine «giacobino». L'osservazione coglieva nel segno non tanto nella descrizione di un De Felice intellettualmente polemico e rissoso, quanto nella caratterizzazione di uno studioso che, già ai suoi esordi, rifiutava l'uso acritico di termini nella fattispecie, «giacobino» al di fuori del loro significato originario.Uno dei risultati più importanti della ricerca storiografica di De Felice sul fascismo è stato l'aver reinserito a pieno titolo quel periodo nella storia d'Italia sgombrando il campo da tutti i discorsi che tendevano a presentarlo come un momento inspiegabile di follia collettiva. Il fascismo, com'egli ben dimostrò, aveva avuto origine dal primo conflitto mondiale e dalla crisi del dopoguerra: una crisi caratterizzata dalla scissione tra «paese reale» e «paese legale», dall'ideologizzazione delle masse, dal tracollo di modelli culturali tradizionali e dalle spinte di forti processi di mobilitazione sociale. Il ventennio fascista, nell'analisi di De Felice, si sviluppò all'insegna di una dialettica tra il «vecchio» fascismo, quello «premarcia» e intransigente, desideroso non solo di partecipare alla gestione del potere ma di porsi come alternativa al sistema, e la vecchia classe dirigente tradizionale e «fiancheggiatrice», che non voleva sovvertire radicalmente il sistema, ma rafforzarlo e rivitalizzarlo secondo una ammodernata versione del sonniniano ritorno allo Statuto. Durante il ventennio, dunque, il fascismo, nella forma, riuscì a fascistizzare la classe dirigente fiancheggiatrice, ma, nella sostanza, quest'ultima finì per privare il fascismo della sua carica rivoluzionaria, trasformandolo in proprio strumento e facendolo rientrare, per usare le parole di De Felice, «in larga misura nell'alveo della tradizione conservatrice». Nell'ultima fase della parabola storica del ventennio, peraltro, l'equilibrio su cui si reggeva quel compromesso andò incrinandosi.Ci furono, quindi, la guerra e la catastrofe con tutto quello che esse comportarono. Il popolo italiano, poi, si trovò, coinvolto nella guerra civile, a vivere un vero e proprio dramma tra fascisti e partigiani. Le pagine dedicate da De Felice a questo capitolo della crepuscolare vicenda storica del fascismo sono tra le più belle, intense e significative di tutta la sua opera. Lo sono sia perché sfatano miti consolidati, sia perché offrono le chiavi per una migliore comprensione del futuro politico del Paese all'indomani del conflitto. Premesso che la Resistenza era stata un «grande evento storico» che nessun revisionismo avrebbe mai potuto negare, De Felice ne ridimensionò la leggenda che voleva presentarla come un movimento popolare di massa, ricordando che le sue fila, a eccezione di alcune limitate zone, si ingrossarono soltanto alla vigilia della capitolazione tedesca, quando cioè la vittoria degli Alleati era cosa certa. Ma, soprattutto, smontò la «vulgata» storiografica resistenziale. Questa, secondo lo studioso, era stata costruita per ragioni ideologiche, allo scopo cioè di «legittimare la nuova democrazia con l'antifascismo», ed era stata utilizzata per scopi politici al fine di «legittimare la sinistra comunista con la democrazia».La verità, secondo De Felice, è che comunisti e azionisti nella convinzione che l'Italia postfascista non dovesse avere nulla a che fare non soltanto con l'Italia fascista ma anche con quella liberale e prefascista nutrivano propositi realmente rivoluzionari. La Resistenza, in altre parole, veniva concepita come il vero, e forse unico, fatto rivoluzionario della storia dell'Italia unitaria. Il che spiega diverse cose. In primo luogo spiega perché le formazioni militari politiche di orientamento comunista e azionista guardarono male le altre componenti della Resistenza, cioè sia le formazioni autonome, sia quelle che avevano preferito porsi sotto il patronato di cattolici e liberali per sottrarsi alle inframmettenze e alla sotterranea ostilità dei partiti di sinistra. In secondo luogo spiega perché il Pci sostenesse con energia il proposito dell'unità della Resistenza a guida comunista: la «democrazia progressiva» teorizzata da Palmiro Togliatti era a esso funzionale. Secondo De Felice i comunisti italiani, pur in quella contingenza, erano al servizio di Mosca: per loro la «svolta di Salerno», ovvero la politica di collaborazione con la monarchia dopo il rientro di Togliatti dall'Urss, così come la teoria della «democrazia progressiva» non erano altro che mosse tattiche.La scelta del terrorismo, del tutto priva di utilità sul piano militare, era funzionale alla strategia comunista proprio per riaffermarne il ruolo egemonico all'interno di una Resistenza che sempre più finiva per caratterizzarsi come «guerra di classe» e non come «movimento nazional-patriottico». Il terrorismo, secondo De Felice, serviva soprattutto a provocare la reazione dei fascisti e dei tedeschi e quindi a suscitare l'indignazione popolare e a scoraggiare ogni tentativo di pacificazione. Esso, poi, serviva a creare attorno ai Gap comunisti che lo usavano contro obiettivi simbolici è il caso dell'assassinio di Giovanni Gentile «un alone di forza e di onnipotenza» e ad esaltare «agli occhi della gente l'attivismo, l'efficienza e lo sprezzo del pericolo dei comunisti» rispetto alla «passività» delle altre componenti della Resistenza.

Il lungo percorso storiografico effettuato da De Felice con la sua ricerca su Mussolini iniziato con lo studio della crisi dell'Italia liberale all'indomani della prima guerra mondiale e proseguito con la ricostruzione delle vicende del ventennio fascista e l'analisi della catastrofe del regime trova, così, la sua conclusione alle soglie dell'Italia repubblicana. Lasciando al lettore tutti gli elementi necessari per formulare un giudizio etico-politico.

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