Si chiama Mary Lynn Bracht ed è una scrittrice statunitense di origini coreane. Il suo romanzo d'esordio, appena tradotto in italiano da Longanesi si intitola Figlie del mare (pagg. 372, euro 18,60). Racconta una storia molto dura, quella della sedicenne Hana, che nel 1943 - la Corea era occupata dalle truppe giapponesi - viene rapita da un soldato giapponese e trasformata in una schiava sessuale. Questo fatto getterà un'ombra terribile su tutta la sua famiglia e condizionerà per decenni anche la vita della sorella più piccola Emi. Anche perché Hana si è fatta catturare nel tentativo proprio di salvare lei. Ma se la vicenda del romanzo è immaginaria va subito detto che è in un certo senso la summa di quello che davvero è capitato a circa 200mila donne coreane e alle loro famiglie. Ci siamo fatti raccontare la vicenda, poco nota in Occidente, direttamente dall'autrice.
Cosa è successo in Corea tra il 1910 e il 1945?
«La Corea è stata militarmente occupata dal Giappone che stava diventando una potenza imperiale. Quando iniziò la seconda guerra Cino-giapponese, nel 1937, l'occupazione divenne più dura. Venne vietato l'uso del coreano, vennero giapponesizzati anche i nomi, e si cercò di portare avanti la requisizione di tutti i tipi di risorse. Le autorità militari, pensando che alle truppe, coinvolte nei diversi fronti, servissero delle donne di conforto, autorizzarono il rapimento di migliaia di ragazze».
Non fu quindi qualcosa di episodico e partito dal basso?
«No, venne fatto in molti dei territori occupati dai giapponesi. Probabilmente fu una pratica che venne sdoganata a partire dal massacro di Nanchino, dove migliaia di civili vennero trucidati e violentati. Alla fine era insito nella tradizione dei samurai che prima del combattimento i soldati si liberassero di quella che era considerata energia sessuale in eccesso».
E si tradusse in una vera e propria deportazione?
«Sì, perché questa pratica venne istituzionalizzata. E le donne coreane deportate su tutti i fronti. Spesso per tenerle buone veniva loro detto che sarebbero andate a fare le operaie ma il loro destino era ben diverso...».
Casi paragonabili, dalle «marocchinate» in Italia ai Lebensborn nazisti in Svezia, sono capitati altrove. Ma quello coreano è impressionante anche per i numeri. Perché se ne è parlato poco?
«Nonostante le autorità giapponesi siano state sottoposte a processi per i crimini di guerra, buona parte dell'entourage politico del Paese è transitato al di là della Seconda guerra mondiale. Parlare di questi crimini pubblicamente avrebbe provocato uno scandalo enorme. E così sono stati rimossi. Anche in Corea se ne è parlato poco sino agli anni 90 del Novecento. Ora invece ci sono state prese di posizione diplomatica e proteste popolari, sono state poste delle statue che ricordano quelle ragazze».
Perché così tardi?
«A causa della guerra contro il Nord a lungo la corea del Sud è stata una dittatura militare e queste vicende erano un tabù. E poi bisogna considerare che per la cultura dell'epoca si trattava di una vergogna enorme. In una visione tradizionale tutte queste donne avrebbero dovuto suicidarsi per aver perso la loro virtù. Ecco perché molte di loro non sono più rientrate in Corea e sono rimaste dove i giapponesi le avevano deportate. Quindi solo negli anni Novanta la vicenda ha iniziato a emergere nella coscienza pubblica. O meglio prima si sapeva, ma si taceva».
Lei come lo ha scoperto?
«Nel 2002 sono andata per la prima volta a fare un viaggio in Corea con mia madre e mi sono documentata. Quando ho scoperto la vicenda delle donne di conforto sono rimasta scioccata. Poi mi è capitato di sentirne parlare più volte, rendendomi conto di quanto poco venisse fatto per queste donne. Alla fine ho scritto un racconto sul tema, poi una tesi e alla fine ne è uscito un romanzo vero e proprio».
Nel romanzo ci sono pagine dure, come quella in cui Hana viene stuprata da un soldato. Non deve essere stato facile scriverle...
«Ho letto tantissime testimonianze reali in modo da poter creare un racconto immaginario ma aderente alla realtà. Volevo soprattutto trasmettere le emozioni delle vittime».
Le vittime non sono state solo le ragazze.
«Sì,
intere famiglie si sono sentite oppresse dalla vergogna e hanno occultato. Ma il dolore restava, ha covato per anni. Tutto questo ho cercato di renderlo attraverso la sorella di Hana, Emi. Emi è lo specchio della Corea».
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