John Osborn non è il drammaturgo inglese dei «giovani arrabbiati» anni Cinquanta, ma il gagliardo tenore che è diventato famoso con le opere di Rossini più impervie, Guglielmo Tell, Donna del Lago, Otello.
Quarantasette anni, nato a Sioux City nello stato dell'Iowa, il protagonista dell'apertura della stagione del Teatro dell'Opera di Roma, ha colto nella capitale alcuni dei suoi successi più clamorosi. Nel 2010 all'Accademia di Santa Cecilia, sotto la guida di Antonio Pappano, ha affrontato una delle parti «feticcio» del repertorio, Arnoldo nel Guglielmo Tell. Il ruolo dove è nato l'acuto tenorile più travolgente, il «do di petto», la nota con cui il romanticismo faceva irruzione nel belcanto. Come tutti i suoi colleghi anche Osborne ha imparato la lingua italiana da ragazzo.
«Ho iniziato a scuola, in coro e nei gruppi madrigalistici; poi studiando arie e scene operistiche all'università e alla Des Moines Metro Opera di Indianola (Mississippi). Giovane artista della Metropolitan Opera, ho capito che avrei dovuto imparare velocemente per comunicare in una lingua straniera. Per fortuna, ho sempre avuto facilità nell'imitazione».
Al Teatro dell'Opera di Roma ha cantato spesso in francese, lo ricordiamo nella molto impegnativa parte di Benvenuto Cellini di Berlioz e nell'ironico Fra Diavolo di Auber. Quest'edizione diretta da Daniele Gatti dei Vêpres siciliennes rispetta l'originale grand opéra in cinque atti, con il gran ballo delle Quattro stagioni e la lingua originale, come è in voga di questi tempi. Quale lingua preferisce, lei?
«Io preferisco cantare sempre nella lingua originale, perché la sento più vicina al modo in cui è stata pensata. Amo cantare in francese, perché penso che sia una lingua che favorisce certi colori e sfumature che ben si adattano alla mia voce».
Lei ha avuto altri trionfi clamorosi in ruoli impervi di Rossini, penso al Rodrigo nella Donna del lago alla Scala, un successo colto fra l'altro accanto a un mostro sacro come Juan Diego Florez. Dopo Rossini, come si sente nel Verdi alla francese?
«L'opera seria di Rossini ha dato molto al Verdi dei Vêpres siciliennes: ci sono molti passaggi acuti, momenti di luce e di bellezza; ma soprattutto ci sono i momenti eroici. Nello stile di Verdi sento la riflessione e la continuazione della tradizione del Bel canto. Tuttavia le richieste vocali di Verdi necessitano più legato e maggiore pienezza vocale. Come Donizetti, Verdi mi permette di liberare la voce, cantando bene in modo più potente».
Tanto eroismo e potenza, ma poi all'ultimo atto Verdi scrive una Mélodie tutta gioia e leggerezza. Ho sentito più di un tenore rimanerci dentro; infatti spesso si tagliava.
«Potrebbe sembrare un'idea sconsiderata scrivere qualcosa del genere alla fine dell'opera, dopo che il tenore ha cantato così tanto e in modo eroico. Ma non mi dispiace cantarla, avendo la flessibilità di farlo: in fondo è un pezzo affascinante. Se si può farlo, perché no?»
Il tenore, Henri, giovane siciliano è al centro della vicenda drammatica dei Vêpres.
«Congiura, ama, si ribella, scopre che il nemico è suo padre, lo salva dalla congiura, viene considerato traditore, quando riesce a coronare il sogno d'amore, sulle sue nozze cala il Vespro, la rivoluzione e il sipario».
Per questo serve essere anche attori, non solo avere la tecnica flessibile. All'inizio bisogna mostrare il carattere fiducioso e sprezzante di un ragazzo appassionato che ama la duchessa Elena e la patria di cui è orgogliosissimo. Poi c'è la lacerazione, quando scopre che suo padre è Monforte, il nemico contro cui tutti hanno cospirato. Un padre sognato che a quanto pare, ha stuprato la madre.
Henri compie in quest'opera un viaggio di sentimenti che sembrano quasi le montagne russe. Un viaggio piuttosto lungo. Se non sei vocalmente maestro della tua voce e non hai sperimentato nella vita, sofferenza, perdite, amore, tradimento, è impossibile esprimerlo nel corso di un'opera di 4 ore.
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