Si potrebbe pensare il contrario, eppure l'Italia degli anni Trenta, che si vorrebbe irrimediabilmente esterofoba e razzista, fu volano e propulsore di un genere «nero», quello nato nei quartieri malfamati di New Orleans dagli schiavi afroamericani: il jazz. E a guardare a quella nuova musica, con spessore e profondità d'analisi non comuni, fu anche uno dei massimi pensatori del '900 (oggi demonizzato): Julius Evola.
L'attenzione del filosofo italiano verso il jazz e la musica «nera» non fu né una contraddizione né una meteora. Evola, radicale anticonformista, non si sottrasse a un confronto con l'espressione musicale più dissacrante, libera, anticanonica e antiaccademica, pubblicando, nel 1934, il saggio Filosofia del jazz. E non si trattò nemmeno di un episodio isolato: per oltre trent'anni, tra il 1936 e il 1971, Evola fu affilato critico e saggista musicale su diverse testate nazionali (Roma, Corriere Padano, Il Regime Fascista, Il Popolo Italiano, Rivolta Ideale). Ora, quella preziosissima miniera di scritti musicali evoliani viene riedita in Da Wagner al jazz. Scritti sulla musica 1936-1971 (Jouvence, pagg. 181, euro 16; a cura di Piero Chiappano e con la prefazione del filosofo Massimo Donà).
Siamo di fronte a sferzanti e serrate riflessioni musicologiche aspetto, finora, poco sondato del pensiero del Barone e che, grazie a questo nuovo titolo, viene sondato sulla musica del '900. Grande protagonista del pensiero musicologico evoliano è, per l'appunto, il jazz, genere riconosciuto dal filosofo romano come incontrovertibile segno dei tempi e opportunità da cogliere: «Una civiltà virilmente classica non può considerare che augurabile una crisi dissolutiva della musica romantica. Ora, il jazz può proprio rientrare in una congiuntura del genere». A fronte di una musica troppo razionale e «matematizzata» (altrove condividerà la definizione di dodecafonia come «età glaciale» della musica), «il jazz costituisce una delle forme del superamento del romanticismo e di irruzione del primordiale nel mondo moderno» e ciò significa che «il jazz porta essenzialmente la musica al di là da quell'ambito sentimentale e patetico».
Le riflessioni evoliane, sempre profonde e puntuali, non sono mai slegate dalla filosofia e dalla sociologia. Ecco, dunque, la pungente polemica contro il nemico «popolare»: la musica leggera. La canzone rappresenta «un flagello che imperversa soprattutto nel nostro paese» a causa dei «vari festival, Cantagiro e simili» fino a «quel vero strazio che è Canzonissima» (e chissà, allora, cosa scriverebbe oggi). Sul banco degli imputati, per Evola, c'è la «stucchevole sentimentalità» della canzone di «tipo piatto, falso, sdolcinato, appiccicoso, sfaldato, retorico», il «frasario stupido e vuoto» dei testi, l'insipienza delle canzoni «prive di ogni qualità» e dei loro interpreti dall'«aspetto quasi sempre ebete, buffonesco».
Complice del degrado, agl'impietosi occhi evoliani, è la Rai, colpevole di diffondere «certa musica leggera, nostrana, fatta di canzonette sdolcinate e sceme, di una sentimentalità sfaldata e soprattutto falsa» invece di guardare alla produzione europea più interessante, quella degli zingari romeni («i migliori come musicisti»), l'operetta («fine e signorile»), il francese Charles Trenet e tutta la «gradevole» produzione centroeuropea.
E se la colpa delle canzoni è quella di non lasciare alcuna traccia nella storia, in tale vizio, per il Barone Evola, risiede anche la salvezza: «Essenzialmente vuote e insipide, esse tutte hanno avuto una vita effimera. Questa è la sola cosa che consola».
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