Mentre i nostri migliori marchi di moda passano di mano, acquisiti dal polo del lusso dei cugini d'Oltralpe, emerge da un passato vicinissimo Yves Saint Laurent. A sei anni dalla morte dello stilista francese, icona della moda del XX secolo, arriva un biopic di Jalil Lespert, regista d'origine franco-algerina come YSL, nato a Orano nel 1936, a ricordarci i tempi di un'altra grazia. Si tratta di Yves Saint Laurent (dal 27 marzo, con Lucky Red), film biografico che racconta la vita e l'arte del couturier timido e proustiano, maniaco-depressivo e erotomane, focalizzando una narrazione a tratti drammatica sui vent'anni di successo dell'inventore della giacca sahariana e dello smoking per donne. Quando, dal 1956 al 1976, tutto andava ancora creato e rivisto alla luce della modernità incalzante. E lui, realisticamente interpretato da un attore della Comédie Française, Pierre Niney, a soli 21 anni prese in mano le redini della maison Dior, la casa di moda più importante nel sistema industriale francese. Diventandone direttore artistico dopo che la madre, esperta di disegno, gli intravide un tratto promettente, laggiù nella colonia algerina dove soldati dalla pelle ambrata attraevano gli sguardi miopi di Yves. Non a caso nel film, il protagonista indossa gli spessi occhiali del sarto, così come li ha conservati il suo compagno di vita e di affari Pierre Bergé, che detiene i diritti morali sull'opera di Saint Laurent, incontrato a Parigi nel 1957 e mai più lasciato, fino alla morte di quest'ultimo, nel 2008, per un tumore al cervello. Un tesoro di abiti, borse, accessori e bijoux, quello vegliato da Bergé, ai quali ha dovuto rinunciare il regista Bertrand Bonello, che non avendo il placet ha comunque firmato un altro biopic, in odore di Cannes. Dove, probabilmente, a maggio andrà in concorso il suo Yves Saint Laurent più sulfureo e meno patinato, con Gaspard Ulliel protagonista e Léa Seydoux nel ruolo della musa-modella Loulou de la Falaise.
Se il bello e impossibile Yves va sugli schermi due volte in un anno, è perché le mode passano, ma lo stile resta. Così il film di Jalil, che esplora sia il lato umano che quello professionale di YSL, si sfoglia come una rivista patinata. Dove attrici-modelle magre ed eleganti indossano i veri abiti, creati dallo stilista di dive come Catherine Deneuve e sfilano altere. E frettolose, perché la Fondazione Saint Laurent ha prestato alla produzione i famosi «abiti-Mondrian» o i tailleur-pantalone originali, a patto che entro due ore venissero sfilati, per evitare macchie di sudore o sfregamenti. Un vero tour de force per l'attrice Charlotte le Bon, che interpreta Victoire, tra le mannequins preferite di Yves e oggetto d'un desiderio mai espresso. Ma anche una sfida per Laura Smet, la figlia di Johnny Hallyday che qui interpreta Loulou de la Falaise, musa e compagna di viaggio di Yves, nelle notti folli dei Settanta parigini e durante i soggiorni creativi a Marrakech, nello studio di Majorelle, tra damaschi preziosi e droghe allucinogene. Una piccola hippie molto graziosa, maritata col figlio del pittore Balthus, Klossowski de Rola.
Si rievoca tutto un cosmo chic, che coincide con un modo inquieto di pensare e vivere la vita, anche con leggerezza oggi improponibile, mentre la droga è di massa come i viaggi low-cost. Però Jalil non fa un santino, di Yves, anzi: le sue orge decadenti con Pierre, qui un altro efebico attore della Comédie Française, Guillaume Gallienne; i tentativi di suicidio; le scenate tra i due amanti-soci, le manie depressive vengono messi in chiaro, tra ménage à trois con il fidanzato di Karl Lagerfeld, Jacques de Bascher de Beaumarchais e i capricci della principessa e committente Lee Radzwill, sorella di Jackie Kennedy. Quasi un regesto di nomi di un'alta finanza cosmopolita scomparsa, va in scena una biografia che è un pezzo di mondo.
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