Se è vero che la vendetta è un piatto che va servito freddo, il giapponese Confessions, da giovedì nelle sale, potrebbe esserne il manifesto ideale. Che alla cinematografia orientale la ritorsione sia un tema caro non lo si scopre ora. Però, un film come quello diretto da Tetsuya Nakashima (autore di Kamikaze Girls e Memories of Matsuko), rischia di essere fortemente spiazzante rispetto alla media; e non solo per chi, magari, considera Bianca come il latte, rossa come il sangue alla stregua di una pellicola drammatica.
Già i primi venti minuti del film (tratto dall'omonimo romanzo di Kanae Minato) sono scioccanti. Sembra un giorno normale, di irrispettosa indisciplina, nella classe della professoressa delle medie Yuko Moriguchi (Takako Matsu, perfetta), intenta ad annunciare agli alunni il suo ritiro dall'insegnamento. La donna ha da poco perso la sua bimba di quattro anni, annegata nella piscina della scuola dove insegna. Apparentemente, a causa di una malaugurata disgrazia; ma in realtà non è così. Infatti, la prof rivela ai suoi indifferenti scolari che tra di loro si siedono gli assassini della piccola: due ragazzi dall'animo opposto ma ugualmente colpevoli di quella morte. La legge giapponese non processa i minori di 13 anni, a prescindere dal reato commesso (primo tema di riflessione). E così, ecco scattare nella mente di Yuko un piano diabolico di vendetta: la donna confessa, con volto inespressivo, di aver iniettato nelle confezioni di latte consegnate in precedenza ai due alunni assassini, e da loro ingerito, del sangue infetto del suo compagno, morto di Aids. Che sia vero o meno, non è dato sapere, né ai due, né al pubblico. È proprio in questo intimo tormento dei colpevoli che sta la sottile vendetta di Yoko. Che non infligge ferite al corpo, ma all'anima e alla mente. Pensate al terrore di chi, pur giovane, non sa se avrà speranze di vita futura, costretto così a confrontarsi, ogni giorno, con la propria grave colpa.
Man mano che il film procede, assistiamo alle singole confessioni dei protagonisti della storia, con l'utilizzo di diversi flashback che finiscono per chiarire molte dinamiche, facendo emergere ragioni diverse e soprattutto verità che appartengono anche alla nostra società occidentale. Innanzitutto, il malessere di una generazione di giovani che appare già stanca e apatica, senza apparenti obiettivi. Ragazzi, privi di una morale e di freni inibitori, che banalizzano il male trasformandolo in una sorta di passatempo collettivo. Non si delinque più per necessità o indole, ma unicamente per noia. Del resto, basta leggere le pagine di cronaca nera per rendersene conto. Il regista ha una spiegazione e non va tanto nel sottile per sostenerla. La colpa principale è degli adulti, incapaci non soltanto di dare risposte ai propri ragazzi ma anche, cosa ancor più grave, indifferenti davanti ai loro problemi. Per non dire inadeguati o sfuggenti. Le madri dei due assassini, da questo punto di vista, sono emblematiche per la tesi. Una è andata via di casa lasciando un senso di vuoto in un figlio che fa di tutto per conquistarne l'attenzione e soddisfare il suo desiderio di affetto. L'altra non sa come comportarsi davanti a un ragazzo che, roso dal rimorso, si trasforma quasi in una bestia. Così come sotto accusa è un sistema educativo scolastico (il nuovo insegnante che vuol fare l'amicone a tutti i costi) che, volendosi «accreditare» agli occhi dei ragazzi, finisce per sminuire l'importanza dell'autorità.
Il film ha un incedere lento, buio, cupo, claustrofobico, intervallato da un clima surreale e volutamente sopra le righe, dove l'umorismo nero finisce per rendere ancora più tragico il dramma, con un ralenty esasperato e scene suggestive come quella che immortala la disperazione di Yuko sulle note emozionanti di Last Flowers dei Radiohead.
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