Eggià, si fa presto a criticare i Kiss: tamarri, caciaroni, monotoni, primitivi. Rock, chiamatelo glam se volete. «Posso allungarti all'infinito la lista degli insulti ricevuti», ridacchia Gene Simmons che è il «demone» dei quattro rockettari truccati in modo vagamente kabuki. Altissimo. 64 anni ampiamente premiati dalla tintura dei capelli. Una voce che il suo gusto teatrale rende ancor più cavernosa. Oltre a suonare il basso, cantare, sputar fuoco e sangue ed esibire ogni due per tre la smisurata lingua, ha trasformato la band in un brand. E fattura come una multinazionale (in commercio c'è di tutto con il marchio Kiss, dalle lattine di Coca Cola alle casse da morto). Però, c'è da dirlo, gli piace vincere facile: in quarant'anni i newyorchesi Kiss hanno smerciato 130 milioni di dischi, inventato uno stile inimitabile nel bene e nel male. E firmato brani che hanno fatto epoca a modo loro, da Detroit rock city e Love gun fino alla appiccicosa I was made for loving you, megasuccesso cantato persino da Homer Simpson in una puntata del cartoon. Dopo alti e bassi, i Kiss hanno ormai il pilota automatico: un disco ogni tanto (l'ultimo Monster meglio del penultimo Sonic boom) ma concerti come se piovesse. Ovunque (lunedì a Villa Manin a Codroipo e martedì al Forum di Assago). Pieni di effetti speciali. E di pubblico che ogni volta aspetta la volta dopo: «Su questo forse bisognerebbe riflettere bene», dice, stavolta con voce molto meno impostata di prima.
Ossia, mister Simmons?
«Noi andiamo in scena con le zeppe ai piedi e il trucco sulla faccia. Ma trucchiamo solo quella, non la musica. Siamo dei clown, ma intorno a noi, sulla scena musicale, si vedono tanti veri pagliacci. Non so quanti riescano a fare come noi che suoniamo sul serio e non ci fermiamo mai dalla prima all'ultima canzone. Sa qual è il nostro motto?».
Prego.
«Sul ring si sale non per vincere ai punti ma per mandare l'avversario kappaò».
Ma siete tutti intorno ai sessanta e qualcuno vi consiglia di andare ai giardinetti a fare i nonni.
«Tutta invidia. Se ne senti qualcuno, digli di venirci a vedere dal vivo. Così cambierà idea».
Tanto lo show è sempre quello.
«Sbagliato. Anche stavolta abbiamo luci nuove, un impianto del suono diverso e fuochi e fiamme più spettacolari. È il nostro modo di festeggiare».
Che cosa?
«Il primo concerto dei Kiss è stato a Capodanno del 1973, quante cose sono cambiate da allora».
Quarant'anni fa esatti.
«Da voi in Italia allora c'erano Rita Pavone e la Pfm, vero?».
Non solo loro.
«Ora un cantante italiano è famoso nel mondo, Andrea Bocelli. E Lady Gaga, che è nata quando noi avevamo già inciso tredici dischi ed è una grande fan dei Kiss, voleva apparire in una nostra canzone».
Quale?
«Freak nell'ultimo cd Monster. Ma poi non è stato possibile, lei aveva impegni inderogabili e anche noi non abbiamo potuto spostare i nostri».
Magari potreste duettare dal vivo.
«No no. Con i Kiss non suona e non canta mai nessuno sul palco. Nella nostra storia l'unico è stato Joe Perry degli Aerosmith perché ce lo aveva chiesto tante volte. Se il pubblico va a vedere i Led Zeppelin, vuole ascoltare i Led Zeppelin e basta».
In cambio molti si sono truccati come voi.
«Beh Robbie Williams e le Bangles sono i primi che mi vengono in mente. E tante superstar hanno cantato i nostri brani».
Ma come, i brani dei Kiss tanto bistrattati dalla critica?
«Bruce Springsteen ha suonato spesso Rock'n'roll all nite, i Metallica hanno fatto Detroit rock city e via dicendo».
Però per i Kiss non deve essere facile suonare per decenni ogni sera le stesse canzoni.
«A questo giro iniziamo con il relativamente recente Psycho circus e in scaletta ci sono comunque brani imprevisti».
Insomma, siete sulla linea Bob Dylan (che stravolge sempre i propri classici) o su quella Rolling Stones (brani sempre identici)?
«I brani, specialmente se diventano famosi, dopo tanti anni sono quasi di proprietà del pubblico. Cambiarli significa tradire le sue attese. E un po' anche il nostro mestiere: i musicisti devono regalare gioia, non soltanto soddisfare il proprio ego. Ci sono altri modi per farlo, dopotutto».
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