I misteriosi affari del Pci oltre la Cortina di ferro e il dirigente Fiat ucciso

Il delitto a Torino nel '52: l'uomo aveva lavorato a Bucarest e Berlino. E forse sapeva troppo...

I misteriosi affari del Pci oltre la Cortina di ferro e il dirigente Fiat ucciso

Un appunto dei servizi di intelligence. Poche parole, ma sufficienti per alzare il sipario su un mondo poco esplorato da storici e giornalisti: quello dei traffici commerciali delle nostre aziende con i Paesi del blocco sovietico negli anni del dopoguerra. «Il Pci - scrive una mano anonima ma ben informata - detiene il monopolio di gran parte degli scambi che avvengono con i Paesi di oltre cortina, incassando sul giro globale degli affari mediazioni che vanno dal 2,5 al 5 per cento».

Soldi. Tanti soldi. Che hanno alimentato per anni le strutture di Botteghe Oscure ma non solo. Quando ci sono di mezzo stecche e possibili ricatti tutto può accadere. Anche che echeggino colpi d'arma da fuoco, come quello che la sera del 16 aprile 1952 uccise a Torino l'ingegner Eleuterio Codecà, uno dei massimi dirigenti della Fiat.

Per quanto possa sembrare sconcertante, il nome del sicario che si nascose fra i cespugli di via Villa della Regina ed eliminò Codecà con chirurgica precisione è rimasto ignoto. Ci sono delitti, anche insoluti, che sono presenti nella coscienza collettiva, ma questo è sparito. Rimosso, insieme ai gorghi di quei rapporti torbidi che toccavano troppi centri nevralgici del Paese: dalla Fiat al Pci.

Ora su quella pista si muove Roberto Gremmo, ricercatore tenace e fuori dall'accademia. Gremmo ricostruisce quella storia. Quell'inchiesta a singhiozzo, fatta più di passi falsi e di lato che di accelerazioni. Quel clima di sospetti che alla fine, fra presunte rivelazioni e le imbeccate dei giornali, portò all'assoluzione dell'unico imputato portato a processo: l'ex partigiano Giuseppe Faletto detto Briga, noto come «il Boia della Valsusa».

È lui uno dei protagonisti del libro Il delitto Codecà (in uscita per arabAFenice): Faletto venne assolto il 6 marzo 1956 dalla Corte d'Assise di Torino per insufficienza di prove, anche se condannato, quasi a bilanciare quella clemenza, a 20 anni di reclusione per altri delitti del periodo di guerra.

Siamo davanti a una vicenda intricata cui Gremmo cerca di restituire tridimensionalità. «Il partito di Togliatti - scrive l'autore - faceva un mucchio di soldi con le provvigioni sui traffici commerciali delle ditte italiane con i paesi dell'Est».

E Codecà si era affacciato su quel mondo. Era stato per la casa madre a Bucarest e a Berlino, sua moglie era una rumena di origine polacca. Che cosa era accaduto per arrivare a quella feroce esecuzione? Sono i giornali dell'epoca il metronomo di un'inchiesta difficile, che procede faticosamente e alla fine non approda a nulla. Il 30 aprile 1954, per esempio, Il Borghese di Leo Longanesi pubblica una Lettera alla signora Codecà a firma di Antonio Siberia, pseudonimo di Indro Montanelli: «Facciamo istanza a chi di dovere, visto che in Italia si è dato inizio al disseppellimento dei cadaveri, di non limitarsi a quello di Wilma Montesi, ma di prendere in considerazione anche quello dell'ingegner Codecà. Perché non basta il fatto che nella morte di suo marito non c'entri neanche il cugino di un ministro, per seppellirlo con tanta disinvoltura», si legge nella Lettera.

Erano passati due anni dall'agguato e la nebbia restava fitta. «In fondo ci vuole molto meno fantasia - è la zampata di Siberia-Montanelli - a sospettare di assassinio un Audisio, un Roasio o un Moranino, già abbondantemente collaudati in questo genere di esercizi». Il riferimento a Moranino, scappato in Cecoslovacchia per sfuggire alla giustizia, non era casuale. Anzi, a febbraio del '53 il corrispondente milanese della Gazzetta del Popolo aveva inviato una nota al giornale dopo aver raccolto voci e ghiotte indiscrezioni negli ambienti della Questura: «Un tizio che fa parte della sezione informazioni di Milano la sera prima del delitto si imbatté in Galleria Vittorio Emanuele in due individui cecoslovacchi a lui noti i quali gli avrebbero detto di recarsi a Torino per compiere un'opera di epurazione». C'era dunque lo zampino dei Servizi dell'Est dietro quell'omicidio?

Almeno due circostanze vanno annotate. Gli investigatori non riescono nemmeno a stabilire se quella notte in via Villa della Regina il sicario fosse solo o accompagnato da complici. La Fiat, che aveva messo una taglia milionaria sugli assassini, ad un certo punto aveva frenato e attraverso il vicepresidente Giancarlo Camerana aveva messo un tappo sulle ricerche. Forse per non approfondire quel che sarebbe stato meglio tenere coperto. La compartecipazione a quel business oltre la Cortina che si svolgeva con modalità opache e a tratti illegali.

Gremmo sottolinea che poco prima dell'imboscata, nell'estate del '51, l'impero commerciale del partito era entrato in crisi perché il suo uomo chiave, Augusto Doro, si era macchiato di «irregolarità amministrative» fino ad essere espulso dal Pci. È evidente che ammanchi e ruberie potevano aver scatenato qualunque reazione o vendetta, in quel network oscuro di relazioni fra Torino e l'Est. Quegli spunti si perdono per strada. Finché nel '55 altre rivelazioni portano a Giuseppe Faletto, partigiano dal passato sanguinario.

Ma i sospetti non diventano certezze; certo, un personaggio del genere difficilmente avrebbe sparato di testa sua, muovendosi piuttosto sulla base di input superiori. L'assoluzione del 1956 non scioglie i nodi. La fine di Eleuterio Codecà è ancora oggi un mistero.

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