Nostro inviato a Gorizia
C ombattere nelle file di un esercito che ti guarda con sospetto. Perdere quella guerra, dopo essere stato spedito nel più sperduto e lontano dei fronti e finire prigioniero. Scoprire che, a quel punto, una delle nazioni vincitrici ti reclama come concittadino. A patto, ovviamente, che tu combatta ancora. Questa volta, però, ancora più lontano, in Siberia. Scoprire che se non si vuole restare in un campo di concentramento la sola via di fuga è finire nella lontana colonia cinese di Tientsin, l'unico possibile scampolo di italianità a cui appoggiarsi e da cui tornare a casa, dopo aver fatto praticamente il giro del mondo. È questa l'incredibile storia capitata ad alcuni istriani, trentini, dalmati e giuliani durante la Prima guerra mondiale.
Una vera epopea di cui in Italia si è parlato poco. Quest'anno a èStoria, in una edizione intitolata Italia mia e tutta dedicata all'identità nazionale, questa vicenda la riporta in primo piano la storica triestina Marina Rossi - autrice del libro I prigionieri dello Zar (Mursia) e di altri testi sul tema - che da anni si dedica allo studio delle vicissitudini di questi uomini che, indubbiamente, la loro identità italiana la pagarono cara.
Ma andiamo con ordine e raccontiamo i fatti a grandi linee (di cui si parlerà nell'incontro di oggi Lontano dalla patria. Ai confini del mondo, a Gorizia alla Sala della Torre). Quando scoppiò la Prima guerra mondiale gli austro ungarici si posero subito il problema di cosa fare con i loro sudditi di etnia italiana. Le classi di leva reclutate in Trentino, Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, nel 1914, vennero inviate in Galizia. Combattendo contro i russi non avrebbero avuto tentazioni irredentiste, e del resto era quello il fronte in cui gli austriaci speravano in una vittoria lampo sui russi (e così la cosa venne venduta ai soldati). Le operazioni in Galizia, come ci spiega Marina Rossi, «si rivelarono tutt'altro che facili, su quel fronte l'esercito russo, diede il meglio di sé. Vennero fatti prigionieri centinaia di migliaia di soldati asburgici. Tra cui anche migliaia di italiani. Si trattava per altro di un fronte dove si combatteva una guerra di manovra e questo favoriva le diserzioni. Una tentazione forte per gli italiani. I trentini per irredentismo, i giuliani per socialismo, o per ragioni etiche, gli istriani dalmati per tutti e tre i motivi. Ad esempio da Capodistria veniva un nucleo di irredentisti di stampo mazziniano».
Questa enorme massa di persone venne dispersa nei 45 governatorati dell'Impero russo. E anche gli italiani finirono un po' qua e un po' là. «Le loro condizioni erano molto variabili - spiega la Rossi - qualcuno finì a costruire la ferrovia verso Murmansk, altri in luoghi più ameni, altri ancora reclutati per lavori agricoli o di scavo, in generale le loro condizioni peggiorarono via via che la Russia precipitava nel caos». Dall'Italia, solo dopo il 1915 e l'entrata in guerra, ci si mise al lavoro per liberarli. La Russia era diventa un alleato e quegli uomini, così si pensava all'inizio, erano pur sempre utilizzabili al fronte, anche perché conoscevano bene i territori in cui ci si apprestava a combattere gli austriaci. Ma era una pratica complicata, per essere liberati e rimpatriati dovevano, uno per uno, dichiarare di essere italiani irredenti. E la loro dichiarazione doveva risultare credibile. E per altro i russi erano abituati ad usarli come forza lavoro ed erano sommersi da problemi ben più gravi che restituire questi uomini all'Italia. Per cercare di raccogliere quanti più prigionieri possibile fu creata e inviata a Pietrogrado, nell'Agosto 1916, una speciale Commissione, con lo scopo di organizzare capillarmente la ricerca. Nacque così la Missione militare italiana in Russia, il cui motore principale, da marzo 1917, fu il Maggiore dei Carabinieri Marco Cosma Manera. La Missione svolgeva una attività di propaganda e di ricerca servendosi anche di intermediari russi ed era composta di 21 ufficiali italiani. I risultati furono discreti. Parte di questi prigionieri vennero raccolti in un campo di prigionia, a Kirsanov. Ma alla fine cosa potevano aspettarsi questi uomini dalla loro nuova patria? In Italia li aspettava nella maggior parte dei casi un campo di raccolta. Le loro case o erano ancora al di là delle trincee del Carso oppure potevano semplicemente essere state distrutte dai combattimenti. E chi aderiva, aderiva per convinzione o solo nella speranza di tornare a casa? Difficile da dire.
Un gruppo di 4mila e più redenti riuscì comunque a rientrare partendo dal porto di Arcangelo. Vennero mandati a Torino e come spiega la professoressa Rossi: «Sostanzialmente abbandonati lì. Di mandarli al fronte, dopo che fu chiaro che fine facevano fare gli austriaci agli irredentisti catturati e considerati traditori, non si ebbe il coraggio». Nel frattempo, dopo questo imbarco, sopravvenne il ghiaccio a bloccare quel porto e quindi l'organizzazione di raccolta e rimpatrio subì una sosta. Intanto anche sloveni e croati (di lingua) d'Istria s'erano messi in fila con gli italiani della Missione e molti furono de facto naturalizzati. Ma a quel punto le operazioni di rientro furono, sfortunatamente, complicate dal tracollo della Russia zarista e dallo scoppio della rivoluzione d'Ottobre. Mentre la Russia si spaccava in due dilaniata dalla guerra civile, un notevole contingente di questi militari, scivolò a piccoli gruppi tra i furibondi scontri in corso tra sovietici e zaristi, andando, via transiberiania sino a Vladivostok nell'estrema propaggine orientale della Siberia. «A convincerli di nuovo la professoressa Rossi- fu, con un discorso patriottico, Icilio Baccich (futuro senatore del Regno e membro dell'impresa di Fiume) subito dopo Caporetto. Li spinse a combattere per l'Italia contro l'armata rossa e a favore dei russi bianchi». Da Vladivostok si diressero in Cina e raggiunsero una piccola colonia del Regno d'Italia detta «Concessione italiana di Tientsin». Erano 1600 trentini e circa 900 giuliani. Vennero inquadrati nei battaglioni neri (dal colore delle mostrine) e spediti verso la Siberia. Non fu impegno militare gravosissimo, ebbero per perdite limitate, solo cinque effettivi.
Però di rientrare in patria non si parlò sino alla sconfitta delle armate bianche. E di nuovo si trattò di un rientro con il contagocce. «Partirono svariate navi - conclude la professoressa Rossi parlando con il Giornale- le rotte possibili erano due: attraverso il mar della Cina e l'Oceano indiano passando poi da Suez, oppure raggiungendo gli Stati Uniti e attraversandoli e poi di nuovo imbarcandosi sull'Atlantico. Il ministro degli esteri Sidney Sonnino preferiva la seconda. Perché gli Usa erano pieni di italiani e questo secondo lui, assieme alla bella voce di Caruso aiutava i redenti ad italianizzarsi ancora di più. Molti comunque venivano ancora una volta vagliati e, se sembravano troppo filo austriaci, lasciati a terra. Ho presente la storia di un giovane che venne praticamente buttato giù dalla nave. Ma riuscì a risalire in veste di cameriere. Chi riusciva a salire sulle navi veniva sbarcato o a Trieste o a Napoli.
Tutti quelli che tornarono con mezzi propri affrontarono una Odissea di cui è difficile dare traccia».Questa l'epopea di quegli italiani di confine che la loro italianità dovettero guadagnarsela, con un giro del mondo e un paio di guerre altrui.
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