All'inizio ti senti mancare il terreno sotto i piedi: Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia, la mostra che Palazzo Reale ospita da oggi al 24 giugno, ti proietta direttamente nel pieno della vita dell'artista tedesco, all'anno 1504, quello del suo viaggio documentato in Italia. Un inizio potente e scenografico, che sceglie l'Adorazione dei Magi degli Uffizi come porta d'accesso a un racconto che avverti essere già cominciato, come una volta quando si entrava al cinema senza aspettare che il film ricominciasse. L'apertura è programmatica, perché il progetto espositivo curato dall'olandese Bernard Aikema, studioso che insegna a Verona ed è di fatto Veneto d'adozione, mira a mettere a fuoco il rapporto tra l'arte nordica e quella italiana, usando Albrecht Dürer come paradigma di una curiosità che spinge il mondo tedesco a guardare il nostro e viceversa, all'interno di un dialogo fitto che sino a oggi è rimasto un po' sottotraccia, ai margini della storia dell'arte.
È, meglio precisarlo subito, una mostra che va molto al di là delle logiche di botteghino, e dell'inevitabile scadimento nei contenuti didascalici che rende spesso le grandi monografiche una carrellata cronologica dalla vita alla morte, dal primo quadro all'ultimo. Qui invece tutto è mescolato e la scansione è per temi: natura, geometria (misura e architettura), scoperta dell'individuo, opera incisoria. L'ambizione è dare vita a una rassegna che possa stare sullo stesso piano di quelle che si vedono alla National Gallery, alla Tate o al Rijksmuseum di Amsterdam, dove le mostre sono anzitutto delle occasioni di fare ricerca e di dire cose nuove. Anche a costo di disorientare, com'è di fatto disorientante la scelta di rimuovere la traccia poco documentata di un soggiorno di Dürer in Italia precedente a quello del 1504, che convenzionalmente si è fissato per lungo tempo a metà del decennio precedente e che ora, sulla base dell'assenza di prove certe, si è deciso di rimuovere, andando così ad aprire uno spazio ampio, in cui i contatti tra l'artista di Norimberga e la nostra cultura figurativa devono aver viaggiato secondo traiettorie ancora da acclarare, non però necessariamente riconducibili a una presenza fisica dell'astro nascente della pittura tedesca nella culla del nostra civiltà figurativa, tra Venezia, la Lombardia e la Toscana.
C'è dunque la vecchia idea di Rinascimento, quella che procede da Burckhardt e dalla sua opera capitale del 1860, e che da lì non si è mai troppo scostata, limitandosi a immaginare il Centro Italia come luogo di riscoperta dell'antico e dell'individuo. E, a correggere un'impostazione che oggi appare aver esaurito il suo senso troppo angusto, c'è una visione più ariosa, che mette al centro dell'età delle scoperte e delle Riforme un movimento culturale di respiro già compiutamente europeo, che ricalca le strutture economiche e doppia le rotte mercantili, e che si basa sulla mobilità fisica e intellettuale delle persone e dunque su di un modello dinamico che sta alla base della produzione artistica, determinando il formarsi di idee e linguaggi figurativi internazionali. Era già avvenuto nell'età del Gotico, e dunque non deve stupire più di tanto l'esistenza di questo trait-d'union tra Italia e Europa Centrale, che trova proprio in Dürer la figura cardinale.
Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia è dunque anzitutto un racconto di viaggi: documentati, immaginati, probabili, finanche improbabili. Se il giovane Albrecht avesse continuato a insistere nello stesso perimetro aspirazionale del padre, orafo di successo, o del fratello, che era pittore di corte presso il re di Polonia, non si sarebbe emancipato dalla dimensione di alto artigianato che riconosciamo ai suoi esordi. L'Italia, la conoscenza diretta a Venezia dell'opera di Giovanni Bellini (a partire dalla ritratto dal busto femminile di giovane donna del Kunsthistorisches di Vienna che è stato scelto come icona della mostra), lo studio delle incisioni di Mantegna e di Jacopo dei Barbari, la ricezione della prospettiva e l'osservazione dello sfumato leonardesco contribuirono invece a elevarlo a una concezione del ruolo dell'artista come intellettuale tout-court che per il mondo tedesco rappresentava una novità. L'uomo che si ritrae nell'Adorazione dei Magi al centro della scena, nei panni di uno dei tre re, è lo stesso che ci lascia l'immagine raffinatissima di sé nella posa del Salvator Mundi (la tavola della Alte Pinakothek è uno dei dipinti di cui si sente più l'assenza) e che ritroviamo, artefice e testimone, sullo sfondo della Festa del Rosario, di cui è stata convocata a Milano non la versione autografa di Praga ormai ridotta a una tavola per lo più ridipinta, ma la copia che sta a Monaco.
Se da un lato dunque la mostra di Palazzo Reale vive di singoli momenti altissimi, dal Ritratto di Albrecht Dürer il Vecchio degli Uffizi, al capolavoro del primo soggiorno, il Cristo tra i dottori di Madrid, che darà nel 1506 una virata espressionista a tutta la pittura del Nord Italia, dalla maestosa incisione della Porta d'onore dell'imperatore Massimiliano I al San Girolamo penitente della National Gallery e senza dimenticare altri prestigiosi prestiti, come il Paesaggio con la famiglia del fauno di Altdorfer a fianco delle meravigliose tavolette di Giovanni Previtali con le Storie di Damone, è nella forza di proposizione intellettuale che conserva intatta l'opera incisoria, dalle serie dell'Apocalisse ai cicli cristologici sino all'immancabile Melancolia,
che va misurata la modernità assoluta di un artista capace di mettere l'arte al servizio della sua sconfinata sete di sapere, e di tradurre poi quella smisurata curiosità in segni e figure capaci di trascendere il tempo.
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