Una lettera inedita (ma è davvero una lettera? Sembra un intervento scritto per un'inchiesta) illumina un momento importante della vita di Oriana Fallaci e le origini del suo libro più famoso, Lettera a un bambino mai nato (1975). Il documento fa parte del Fondo Fallaci, l'archivio donato da Edoardo Perazzi, nipote e unico erede della scrittrice, al Consiglio regionale della Toscana. Ne dà notizia, con un servizio di Cristina Manetti, il numero di Panorama oggi in edicola.
La «lettera» affronta il tema della pillola anticoncezionale ma racconta anche la storia di un aborto spontaneo. Difficile stabilire quando sia stata scritta ma alcuni indizi lasciano pensare che risalga al 1971-1972. Perazzi testimonia l'esistenza di una redazione precedente, molto simile, appuntata in un quaderno del 1967. Sarebbe quindi escluso che il padre del bambino perduto da Oriana fosse Alekos Panagulis: il loro amore sboccia nel 1973. C'è un dettaglio che però sembra rimandare a Panagulis: la Fallaci dice infatti che il suo compagno «è morto». Comunque sia, la questione riguarda i biografi. Quello che importa sono le parole della Fallaci.
Scrive la giornalista: «Non ho mai usato anticoncezionali perché, con la stessa intensità con cui ho sempre detestato e rifiutato il contratto matrimoniale, ho sempre desiderato avere un figlio». Ecco la parte autobiografica: «Uno dei più grandi dolori della mia vita è stato perdere il bambino che io e il mio compagno aspettavamo con orgoglio e allegria. Ed oggi il dilemma di usare o non gli anticoncezionali si pone ancora meno per me in quanto il mio compagno è morto e non considero nemmeno l'eventualità di avere rapporti sessuali con qualcuno che lo sostituisca». Sull'aborto: «Non starò a ripetere che la maternità è una scelta, non un dovere. Ripeterò tuttavia che il vero aborto è la pillola. Ancor prima del modo di interrompere civilmente una gravidanza non voluta, la società deve essere in grado di evitare un concepimento non voluto. Io mi sento straziata a pensare che, se mia madre avesse usato la pillola, la sua vita non sarebbe stata martirizzata dagli aborti: per altro clandestini e fatti male». Ancora anticoncezionali: «Non capisco perché un anticoncezionale complichi i rapporti sessuali. Semmai li semplifica, li rende più liberi e giocosi. Non capisco inoltre perché soltanto le donne debbano prendere la pillola (...) Se non esiste (per gli uomini, ndr), che la si inventi». Conclude la Fallaci: «Il mio caso non serve dunque a questa inchiesta. Il mio caso personale non conta ed è semmai l'eccezione che conferma la regola, visto che la stragrande maggioranza della donne ha il problema inverso: limitare o impedire la gravidanza. Io sono per la pillola (di cui non ho bisogno) per le stesse ragioni per cui sono per l'aborto (di cui non ho bisogno) ed ero per il divorzio (di cui non avevo bisogno). E cioè perché la pillola possa essere usata da chi ne ha bisogno».
Lettera a un bambino mai nato fu pubblicato nel 1975, doveva essere un'inchiesta per l'Europeo, diventò un romanzo bestseller (due milioni di copie in Italia, due milioni e mezzo nel resto del mondo). Fu scritto però circa dieci anni prima, di getto, proprio in seguito a un aborto spontaneo (il secondo: la Fallaci aveva già vissuto un'esperienza drammatica nel 1958). Il tragico monologo di una donna che si rivolge al figlio che porta in grembo, interrogandosi sulla responsabilità di dare la vita, e affrontando senza timori la questione dell'aborto, suscitò infinite polemiche. Ne scrive la Fallaci in una lettera del 1975 a Pasolini: «Le donne si indignano da un parte, gli uomini si arrabbiano dall'altra, gli abortisti mi maledicono perché concludono che io sono contro l'aborto, gli antiabortisti mi insultano perché concludono che io sono per l'aborto. E nessuno o quasi si accorge di cosa vuol dire il libro veramente. Nella rissa non hanno ragione né gli uni né gli altri, o hanno ragione tutti e due. Il libro è la saga del dubbio. Vuol essere la saga del dubbio» (da La paura è un peccato. Lettere da una vita straordinaria, Rizzoli).
Le posizioni della Fallaci sulle questioni etiche hanno sempre scatenato un putiferio. Fino alla fine. È sufficiente ricordare l'intervista concessa a Christian Rocca e pubblicata sul Foglio nel 2005. Eutanasia: «La parola eutanasia è per me una parolaccia. Una bestemmia nonché una bestialità, un masochismo. Io non ci credo alla buona-Morte, alla dolce-Morte, alla Morte-che-Libera-dalle-Sofferenze. La Morte è morte e basta». Testamento biologico: «È una buffonata. Perché nessuno può predire come si comporterà dinanzi alla morte () Inutile dichiarare che in un caso simile a quello di Terri (Schindler Schiavo, nda) vorrai-staccare-la-spina, morire stoicamente come Socrate che beve la cicuta. L'istinto di sopravvivenza è incontenibile, incontrollabile». Diritti umani legati alle questioni di bioetica: «Nella nostra società parlare di Diritti-Umani è davvero un'impostura, una farisaica commedia () Ne deduco che, per non esser gettati dalla rupe, nella nostra società bisogna essere sani e belli e in grado di partecipare alle Olimpiadi o almeno giocare la fottuta partita di calcio». Inequivocabili dichiarazioni pro-life che hanno però generato un mezzo equivoco. Anche queste, come tutte le altre, erano battaglie per la libertà individuale, in cui l'anticlericale Fallaci aveva trovato come compagna di strada la Chiesa dell'ammiratissimo Ratzinger. Per questo si definiva «atea cristiana». Ne La Forza della Ragione, dopo aver citato Benedetto Croce, la Fallaci spiega cosa intenda: «E lo sono perché il discorso che sta alla base del cristianesimo mi piace. Mi convince. Mi seduce a tal punto che non vi trovo alcun contrasto col mio ateismo e il mio laicismo. Parlo del discorso fatto da Gesù di Nazareth, ovvio, non di quello elaborato o distorto o tradito dalla Chiesa cattolica ed anche dalle Chiese protestanti. Il discorso, voglio dire, che scavalcando la metafisica si concentra sull'Uomo.
Che riconoscendo il libero arbitrio, cioè rivendicando la coscienza dell'Uomo ci rende responsabili delle nostre azioni, padroni del nostro destino. Ci vedo un inno alla Ragione, al raziocinio, in quel discorso. E poiché ove c'è raziocinio c'è scelta, ove c'è scelta c'è libertà, ci vedo un inno alla Libertà». Un inno alla libertà.
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