"Io non riabilito il fascismo, voglio solo comprenderlo"

Così nel 1975 lo storico rispondeva a quanti accusavano la sua opera di "revisionismo". Da sabato prossimo, il Giornale pubblicherà in otto volumi "Mussolini e il fascismo" di Renzi De Felice

"Io non riabilito il fascismo, voglio solo comprenderlo"

Renzo De Felice, titolare della cattedra di Storia dei partiti e dei movimenti politici all'Università di Roma, abita, tra molti libri, a Monteverde Vecchio, un quartiere di memorie garibaldine e di tensioni populiste tra il Gianicolo e Trastevere. Un bel luogo, «ma non tanto à la page». Si capisce già da questo che De Felice non è un «intellettuale integrato». La polemica che lo ha investito lo conferma. La polemica è scoppiata intorno al suo ultimo saggio Intervista sul fascismo, curato per Laterza da Michael A. Ledeen: un ebreo di origine polacca che ha avuto mezza famiglia sterminata dai nazisti e che è stato assistente di un altro profugo dall'Europa, Mosse, all'Università del Wisconsin. Abbiamo intervistato De Felice dopo che lunghi e violenti articoli di Valiani, Tranfaglia, Alatri, Ferrara, Basso, Ferrarotti ed altri ci avevano fatto temere che lo spettro di Maurras si aggirasse nel Paese, a ritentarvi l'impresa fallita mezzo secolo prima in Francia.

Professore, lei è imputato di tentata riabilitazione del fascismo. Ma non è reo confesso. Anzi, dopo le prime accuse, ha dichiarato che quando il panorama delle critiche fosse stato più vasto, avrebbe replicato in termini scientifici, riportando la discussione sul terreno dove l'Intervista era nata. È pronto per discolparsi?

«L'accusa è del tutto infondata. Sono lontanissimo dal voler operare qualsiasi forma di riabilitazione del fascismo. La mia unica preoccupazione è quella di capire il fascismo, anche se qualcuno obbietta che così c'è rischio di capirlo troppo. Per me, il fascismo storico, quello che s'è sviluppato fra le due guerre, è un fatto concluso, una sua resurrezione in quei termini non è pensabile. L'attuale radicalismo di destra è cosa diversa dal fascismo storico. Comunque, solo avendo un'idea precisa di quel fascismo, si può far opera anche politica per scongiurare il pericolo - cui qualcuno mostra di credere - di un suo ritorno. Se no, si corre dietro a pericoli inesistenti o marginali e non ci si accorge di quelli che sono invece i pericoli reali».

E lei lo dice con tanta disinvoltura? Non crede che proprio questo smascherare i pericoli inesistenti o marginali e riportare l'attenzione ai pericoli veri confessi un disegno politico, di cui l'Intervista è accusata di essere strumento?

«L'accusa di fare il gioco del nemico è sempre toccata agli storici che si sono occupati della storia dei vinti quando erano ancora in vita i vincitori. Ce lo insegna la storia della storiografia del Risorgimento. Ma ho detto che il ciclo del fascismo storico è concluso e quindi se ne può fare la storia. E se non fosse concluso occorrerebbe trattarlo storicamente (e non solo politicamente) per esorcizzarlo».

Ma lei lo ha fatto con «prove inattendibili» di Tranfaglia. E Lelio Basso le contesta addirittura di avere inventato il «ceto medio emergente» che secondo lei sarebbe stato protagonista del fascismo.

«Quello del ceto medio emergente è un problema che si può discutere, non liquidarlo con affermazioni negative. Bisognerebbe tener conto di quel che era stato già prima della guerra, ma soprattutto durante e subito dopo, un tipo di sviluppo che portò a una diffusione della proprietà agricola e dello sviluppo terziario, e così al formarsi di un nuovo ceto di imprenditori. Del resto, il discorso non è nemmeno nuovo. La migliore sociologia ha elaborato la teoria del ruolo strategico del gruppo parzialmente bloccato, che è stata discussa anche e prevalentemente in riferimento ai ceti medi. I gruppi interessati cercano di rimuovere gli ostacoli che bloccano la loro ascesa sociale: i loro sforzi possono farli diventare dei gruppi innovatori o rivoluzionari. Il fenomeno è stato studiato in riferimento all'Europa e allo sviluppo di paesi dell'America latina. Si è concordato nel rilevare che certi motivi populisti, nazionalisti, anticapitalisti e antimperialisti (nel senso di opposizione ai paesi «plutocratici») sono tipici di quei gruppi quando si trovano in condizioni di sviluppo bloccato a livello di partecipazione politica e sociale. Insomma, se si vuole discutere, c'è ampia materia in sede di studio delle trasformazioni sociali, di ricerca storica, di ricerca sociologica. Ma, per farlo, è necessario non partire da premesse dogmatiche».

Dunque lei insiste nel negare che le sue siano «prove inattendibili»? E che, in tempi di religione proletaria, lei abbia parzialmente assolto la borghesia capitalistica dall'aver voluto il fascismo?

«Non so quali prove inattendibili Tranfaglia mi contesta, visto che nel suo articolo non ne indica. Il suo discorso si fonda, a monte, su una interpretazione classista che ha radici reali, ma che finisce per cancellare ogni altra motivazione. Io non ho detto che il mondo industriale non aiutò il fascismo negli anni che lo portarono al potere; e che specie la piccola e media industria non lo considerassero in funzione di guardia bianca. Ma il punto fondamentale, e si veda l'approfondita indagine di Melograni, è che la classe industriale si comportò come la maggior parte di quella politica, cioè perseguì il piano di immettere il fascismo nel governo per dare sangue nuovo alle vene dello Stato liberale: e al tempo stesso togliergli la carica eversiva. Insomma, il piano di costituzionalizzarlo. Si voleva ripetere quel che lo Stato liberale aveva sempre fatto con le forze sovversive - repubblicani, socialriformisti, cattolici -. A un governo Mussolini nessuno aveva pensato fino al 28 ottobre 1922. Se le cose andarono diversamente, è anche perché la classe dirigente non riuscì a capire la novità del fascismo. Né questa fu chiara all'indomani della costituzione del governo Mussolini: tant'è che esso fu governo di coalizione. Per prendere atto della novità, occorrerà attendere il delitto Matteotti e il 3 gennaio».

Ma «novità» di quale fascismo, visto che lei osa distinguere tra «fascismo movimento» e «fascismo regime»?

«La differenza tra movimento e regime non l'ho inventata io, e nell'Intervista è detto. Studiosi di altri Paesi la sostengono da tempo. Anche qualcuno dei miei contraddittori non la nega, pur se vuole ridurne l'importanza dicendo che per qualsiasi realtà politica si può fare distinzione. In linea di mera astrazione, forse è vero. Ma nelle realtà concrete il rapporto movimento-regime incide in maniera molto diversa. Nel caso del fascismo, dove il regime deve tener conto di una molteplicità di forze e di realtà effettive, il divario fra movimento e regime è più marcato che non nell'Unione Sovietica, dove il carattere profondamente radicale della rivoluzione ha reso, a livello di regime, meno numerose e forti le contraddizioni. E poi ho l'impressione che molti abbiano frainteso, abbiano ridotto il movimento al fascismo delle origini: sicché l'hanno visto come il perpetuarsi di certe istanze diciannoviste. Io ho invece chiarito che il movimento fu, sì un continuum, ma con fasi e proprie diversificazioni. Esso fu la proiezione di ciò che, nei vari momenti della storia del fascismo, i fascisti pensavano dovesse essere il fascismo, gli obbiettivi non raggiunti da raggiungere. In questo senso ho parlato di una sorta di «positività» del movimento. Questa «positività», fatta in gran parte di miti e di velleità, costituisce la carica interiore di un certo fascismo insoddisfatto delle realizzazioni a livello di regime; e quindi costituisce uno degli elementi del consenso sia pur critico, teso alla speranza che il fascismo diventi qualcosa d'altro.

Se non si capisce questo non si capisce né perché certi settori importanti della gioventù abbiano appoggiato il fascismo né perché proprio da quei settori si siano venute esprimendo col tempo posizioni che allontanarono molti giovani dal regime e li portarono spesso all'antifascismo».

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