"Io, Robin Hood della tromba nell'Italia che trascura il jazz"

Paolo Fresu al ritorno dal tour mondiale: "Voglio condividere le note con tutti". E svela il suo segreto: "Fondere i vecchi suoni afroamericani con tanti altri stili"

"Io, Robin Hood della tromba nell'Italia che trascura il jazz"

Per un artista creativo come Paolo Fresu ogni scusa è buona per festeggiare in musica. La sua tromba è la più premiata e conosciuta nel mondo, ha inciso oltre 350 dischi (una ottantina a suo nome), ha collaborato con tutte le stelle del jazz, da Ralph Towner a Uri Caine. Nel 2011, per festeggiare i 50 anni, ha tenuto 50 concerti per 50 giorni consecutivi in 50 località importanti della sua Sardegna. Oggi Paolo Fresu festeggia un altro record, i trent'anni del suo quintetto (con Roberto Cipelli al pianoforte, Tino Tracanna al sax, Attilio Zanchi al contrabbasso e Ettore Fioravanti alla batteria) e lo celebra con l'album 30 e con una tournée che l'ha portato persino in Asia dove, manco a dirlo, ha riscosso un enorme successo.

Come è andata in Giappone e Corea?
«Benissimo, laggiù c'è un pubblico caldo e molto competente. Il Blue Note di Tokio è uno dei locali migliori al mondo e i giapponesi sono divoratori di dischi e concerti e sono gente molto creativa. Abbiamo fatto una splendida session con dei tap dancers, dei ballerini locali».

Di questi trent'anni col quintetto - il gruppo jazz più longevo d'Italia e uno dei più longevi al mondo - cosa ci racconta?
«Solo ora ho realizzato che trent'anni di quintetto corrispondono ai miei primi trent'anni di musica. La band è la mia famiglia, dopo tanto tempo ci divertiamo sempre e cerchiamo di stupirci l'un l'altro. Io spesso li tradisco con altre avventure musicali, che portano nuova linfa vitale al quintetto e gli permettono di evolversi continuamente. Il nostro collante ideologico è la ricerca unita alla curiosità».

La curiosità infatti è sempre stata una costante della sua musica.
«Arrivo da Berchidda, piccolo paese nel cuore della Sardegna e la prima volta ho suonato con la banda locale. Ad esempio a volte, dopo un concerto, arriva qualcuno e mi dice “si sentiva il sapore di Sardegna”, ma io non me ne accorgo. Non dimentico le radici ma continuo ad abbeverarmi alle fonti del jazz».

Quali sono i suoi punti di riferimento?
«Cerco di muovermi attraverso due direttrici apparentemente lontane tra loro, ovvero lo stile di Miles Davis e quello di Chet Baker. Amo la bulimia con cui Miles costruisce le architetture musicali ma amo anche la poetica, il lirismo e il melodismo di Chet Baker».

Quindi come ha sviluppato il suo stile?
«Fondendo il suono afroamericano con una pletora di stili. In Europa, in ogni luogo dove il jazz attecchisce, si fonda ora con il folklore, ora con i suoni classici creando un meraviglioso meticciato. Il bello del jazz è che a volte ha un aspetto un po' folle».

A proposito di tradimenti, recentemente ha inciso un disco con il Devil Quartet...
«Si, un'altra delle mie emanazioni musicali. Il disco rappresenta la voglia di raccontare in studio l'esperienza maturata in cinque anni di concerti dal vivo»:

Ha già nuovi progetti?
«Comincerò presto a registrare un nuovo album per la Ecm, in duo con il bandoneon di Daniele Di Bonaventura».

Come vede il jazz in Italia oggi?
«Certo è una musica di nicchia ma con grandi potenzialità. Il jazz soffre la crisi come tutto il mondo della musica, ma gli appassionati sono più fedeli al disco, acquistano il prodotto e riempiono le sale da concerto. Manca un'educazione al jazz e migliori rapporti con le istituzioni. Ho iniziato un discorso sul jazz con il ministro Bray, ora speriamo che le cose riprendano con Franceschini».

Lei comunque continua a darsi da fare...
«Sì, tanti giovani si rivolgono a me per chiedermi consigli così ho fondato una casa discografica, la Tûk Records, perché diventi una specie di famiglia artistica. Anche col mio Festival estivo, Jazz in Time, a Berchidda, cerco di unire ai grandi nomi la valorizzazione di giovani talenti.

Ritengo che siano importanti anche i seminari che tengo da 25 anni».

Lei una volta si è definito un Robin Hood del jazz.
«Beh, sì, nel senso di prendere qualcosa per dividerla e condividerla con gli altri».

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