Italiani, a chi l'arte? A voi! La creatività oltre il regime

Non solo propaganda, sotto il Fascismo ci fu un'esplosione di idee e movimenti. Che il potere usò a proprio vantaggio

Italiani, a chi l'arte? A voi! La creatività oltre il regime

Sbaglia chi dice che l'età dell'oro dell'arte italiana sia finita nel '600, con Caravaggio e il Barocco. Dopo due secoli di relativa calma, con neoclassicismo, rococò e pittura di genere tra Francia e Inghilterra nel '700, e dopo un certo provincialismo regionalistico ottocentesco mentre Oltralpe si sviluppa l'Impressionismo, almeno nella prima parte del '900, più che di un ritorno si deve parlare di un nuovo straordinario momento di vitalità della nostra cultura visiva.

Se le date significano qualcosa, segniamoci il 1909 e la pubblicazione del primo Manifesto del Futurismo siglato Filippo Tommaso Marinetti. Tutte le altre avanguardie vengono dopo. È più di un'ipotesi allora: se l'arte contemporanea fosse davvero nata in Italia? Ripercorrendo quel tempo tra la fine della Prima Guerra Mondiale - 1918 - e la caduta del Fascismo - 1943 - il critico d'arte Germano Celant ha riscoperto un universo creativo di straordinaria portata, non volendo però identificarlo come l'arte del Ventennio, ma come un sentimento già ampiamente diffuso che semmai il Fascismo ha saputo valorizzare, in primis attraverso l'architettura, quindi nelle grandi mostre volute dal regime. Mai come in quei decenni arte e potere sono stati vicini e non basta sottolinearne il valore propagandistico come unica finalità di una politica totalitaria: l'arte italiana non è più stata così vivace, tanto meno quando è passata nelle mani del Pci di Togliatti, anche con clamorosi voltafaccia - Guttuso, a esempio, ha dipinto il suo capolavoro Crocifissione tra il '41 e il '42 per la rivista Primato e il Premio Bergamo, diretti dal ministro della cultura Bottai. Agli artisti di valore, insomma, il Fascismo non fa male.

Si intitola «Post Zang Tumb Tuuum» l'enciclopedica rassegna che apre domani alla Fondazione Prada di Milano e prosegue fino al 25 giugno, ispirandosi all'onomatopea del primo Futurismo, di fatto entrato in crisi con la morte di Boccioni del 1916 eppure considerato tra i possibili ispiratori dell'ideologia fascista a proposito di interventismo, esaltazione della giovinezza e uccisione simbolica del chiaro di luna. Celant l'ha voluta ricca, ricchissima di opere d'arte, documenti, fotografie, manifesti e tutto quanto è utile alla ricostruzione, come sempre filologica, di un clima effervescente, arrivando a occupare l'intero edificio di Rem Koohlaas per un allestimento, definito immersivo, ideato dallo studio 2x4 di New York. Ci sono i maestri - Carrà, Casorati, de Chirico, Morandi, Balla, Sironi ecc... - i movimenti - Futurismo, le espressioni figurative di Valori Plastici, Novecento, les Italiens de Paris - fino agli astratti di Corrente. Poi l'asse dell'arte si sposta definitivamente a New York, a conferma del fatto che il primato politico si fonda su quello culturale.

Oltre agli artisti, peraltro di primissimo piano, sono le mostre a giocare un ruolo fondamentale: la Biennale di Venezia del '22, pochi mesi prima della marcia su Roma; quella del '24 con protagonisti i Futuristi; la prima Quadriennale di Roma del '31, nata con l'intento di valorizzare l'arte italiana; le due rassegne sul Novecento alla Permanente di Milano curate da Margherita Sarfatti nel '26 e nel '29. Il fiorire delle arti sotto il Fascismo, un unicum per una dittatura, se si pensa al nulla lasciato dai nazisti e alle brutture stilistiche dei sovietici, conferma, con la sola eccezione della pittura murale, la tesi di una propaganda indiretta, non illustrativa e didascalica, con un preciso intento estetico che guarda alla modernità soprattutto in architettura, orientamento visibile nella costruzione degli edifici pubblici che talvolta inglobano opere pittoriche: la Casa del Fascio di Terragni a Como, il Palazzo di Giustizia di Piacentini a Milano con dipinti di Carrà e Sironi, il Palazzo Liviano di Giò Ponti a Padova con intervento murario di Campigli e una statua di Arturo Martini.

Ricostruite quindi la «Mostra della Rivoluzione Fascista» del 1932, realizzata a Roma tra Palazzo delle Esposizioni e Galleria d'Arte Moderna per espresso volere del Duce, forma strategica per costruire il consenso e il progetto dell'E42, massima ambizione del Fascismo che avrebbe dovuto celebrare il ventennio, sia ripescando le fonti storiche di Roma antica, sia guardando, come sempre, al futuro. La guerra e la caduta di Mussolini lo interrompono. Né va tralasciato il ruolo degli oppositori culturali, anche se diversi intellettuali ebbero la possibilità di esprimersi per lo meno nella prima parte soft del regime. Passano gli ironici e corrosivi disegni di Maccari, gli scritti di Malaparte, «fascista della prima ora» e poi mandato al confino più che altro per la liaison con Virginia Bourbon del Monte che poco piacque al suocero Giovanni Agnelli, i romanzi di Alberto Moravia, attivissimo durante il regime, soprattutto per il successo di Gli indifferenti.

Sarebbe limitativo parlare di «arte del fascismo». Più corretto dire «arte nel fascismo», ma cambia poco. Con l'avvento della democrazia un fenomeno quantitativamente e qualitativamente così significativo non si è più ripetuto.

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