Jihadismo nuovo nazismo. È tempo di fuga dall'Europa

L'offensiva islamista spinge molti ebrei a lasciare il Vecchio Continente. Intanto l'Ue marchia i prodotti israeliani. Per la felicità degli antisemiti

ALAIN APAYDIN
ALAIN APAYDIN

«Giorno della memoria» è un'espressione impossibile per i più perché «ci hanno tirato via da sotto i letti, da dentro gli armadi, imprecavano: Il treno aspetta, dritti all'inferno, alla piazza di carico, all'Umschlag, alla morte. Dalle camere tutti ci hanno estratto e hanno frugato in cerca dell'ultimo vestito nell'armadio, dell'ultima minestra, dell'ultima pagnotta». Quale memoria può sopportare una scena simile? Eppure così racconta Itzak Katzenelson, in poesia, il momento della deportazione, e non è che l'inizio; nel viaggio avviene una prima decimazione in cui i bambini muoiono in braccio alle madri, e i padri, racconta, tenendo in braccio i figli; poi, Katzenelson subisce, come milioni di altri, la fine della moglie e dei suoi due bambini, lo sterminio di un popolo enorme, «i bambini mentre venivano ammazzati alzavano le braccia verso di voi». Chi può vivere questo giorno della memoria? Chi è capace davvero, fra i politici, i religiosi, gli intellettuali che piegano la testa e depongono corone in questo giorno, di pensare ciò che è successo al popolo ebraico in quegli anni? Il tentativo di porre un rimedio, o almeno una toppa, sulla vicenda che solo 70 fa ha frastagliato la vita europea, ha visto molte fasi, dall'incredulità al pentimento, ha chiamato in causa istituzioni, scuole, corsi, cerimonie, viaggi ad Auschwitz. Ci sono state gentilezza, sorrisi, scuse, moltissime promesse, tutti intitolati «mai più». Ma, evidentemente le cose non hanno funzionato.

Oggi, di nuovo, molti ebrei scelgono di andarsene dall'Europa a frotte, perché in alcuni Paesi non intravedono la speranza di un futuro per sé e per i loro figli. La proposta, scandalosa quanto indecente, di togliersi la kippà e ogni altro segno distintivo dopo che, ultimo attacco in ordine di tempo, un ebreo è stato attaccato a Marsiglia con un machete da uno dei tanti jihadisti, va insieme al numero record di 10mila emigrazioni in un anno dall'Europa Occidentale, soprattutto dalla Francia. Da qui provengono 8000 persone, seguiti dagli ucrani (5840), e poi dagli inglesi, i belgi, gli italiani, circa 400, e non sono pochi, date le minuscole dimensioni della comunità italiana.

La sequenza di attacchi terroristici è talmente serrata da fornire la ragione immediata della scelta ebraica. Prendiamo, appunto, la Francia, dal gennaio al dicembre 2015, e troviamo subito i quattro uccisi al supermaket casher dopo l'eccidio di Charlie Hebdo, e via via con frequenza insopportabile aggressioni personali, atti di vandalismo, botte, urla a mamme e bambini al parco («Hitler non ha finito il lavoro»), rapine, assedi in sinagoga e in altre sedi di riunione, scritte, pugnalate, veleni... La maggior parte dei parpetratori dei crimini, in parallelo ai quali scorrono altri delitti in altre nazioni europee, sono islamici jihadisti. Ma, attenzione, non è solo questo il problema: la realtà è che la struttura europea è diventata più o meno consciamente, un guscio accogliente. Dal 1979, e poi lungo la guerra del Libano dell'82, si susseguono attentati a Parigi, sul cui sfondo si muovono cortei che urlano contro un inventato «genocidio in Libano» (lo scrissero Le Monde, l'Humanité, anche Témonignage chrétien). L'antica avversione anti-israeliana si fa israelofobia, e quindi antisemitismo delle classi intellettuali.

L'attuale odio jihadista non è un puro problema sovrastrutturale di cui, alla fine, gli europei potrebbero essere solo molto dispiaciuti, pur sostenendo che gli attacchi terroristici e il nuovo antisemitismo siano frutto delle recenti ondate migratorie. Non è solo così: gli ebrei che se ne vanno non avvertono più la volontà di combattere il fenomeno, hanno visto cortei ai tempi della guerra difensiva di Gaza inondare Berlino (!) di urla «morte agli ebrei»: è la sensazione che non ci sia più la volontà da parte dei Paesi di origine di contenere l'antisemitismo dilagante, di bloccarlo o almeno di disapprovarlo con tutti i sentimenti, la forza intellettuale e morale, il comune buon senso. L'antisemitismo si è fatto in buona parte dei casi affluente del grande fiume del politically correct, le classi dirigenti quindi non hanno gli strumenti per individuare il nemico e batterlo. Intanto, proibire all'immigrazione islamica di essere antisemita è una operazione culturale gigantesca, che richiederebbe un lavoro capillare sin dall'infanzia. Una volta, all'Unione Europea chi scrive ha sentito sostenere che mettere fra le condizioni per fornire aiuti ai Paesi arabi la rinuncia a esprimere volontà bellicose contro Israele era una pretesa assurda. Anche bloccare l'antisemitismo lo è. Ma lo è persino chiamarlo per nome.

Un esempio: quando nel 2004 fu rapito a Parigi il ragazzo ebreo Ilan Halimi dal gruppo della banlieu «i barbari», poi torturato e ucciso leggendo il Corano, la polizia battè ogni possibile pista prima di piegarsi all'idea che si trattasse di un rapimento che aveva come obiettivo proprio un ebreo. Pensò alla droga, al sesso, alla malavita... La madre di Halimi invano insistette sulla pista antisemita. Così oggi: alleato oggettivo dell'antisemitismo più pratico, quello che minaccia fisicamente gli ebrei, è l'israelofobia che ormai da decenni fa parte della cultura di base sia della destra sia della sinistra, che lascia che di Israele si dicano le cose più assurde, che lo si accusi di genocidio («fa ai palestinesi quello che i nazisti facevano agli ebrei» è un evidente un blood libel antisemita), di apartheid, addirittura, come scrisse il giornale svedese Aftonbladet, di uccidere i palestinesi per venderne gli organi. Anche in Italia dove, invece di dare la notizia degli attacchi terroristici che tormentano Israele si titola un giornale sul palestinese terrorista ucciso nel tentativo di impedirgli di colpire ancora, o, in Svezia, dove si accusa Israele di «uccisioni extragiudiziali» perché ci si difende, si compie un'operazione di supporto evidente all'antisemitismo.

Israele, lo Stato degli ebrei, è colpevole, quindi gli ebrei sono colpevoli è la facile equazione. L'Europa non combatte l'antisemitismo: basti pensare alla recente promozione da parte dell'Ue del labeling dei beni (vino e altri prodotti, soprattutto alimentari) provenienti da oltre la Linea Verde. È una scelta discriminatoria: ci sono 200 conflitti territoriali, fra cui alcuni vicinissimi, come quello del Marocco o di Cipro, ma a nessuno l'Europa ha inflitto un bollo di infamia. Solo a Israele, che così deve vedere di nuovo i prodotti ebraici marcati, come nel passato. L'Europa pretende, in mezzo al mare di violenza mediorientale, di disegnare i confini, e quindi i mezzi di difesa, di Israele, di sostituirsi alla trattativa prevista.

Oppure non è questo lo scopo, anzi, lo scopo non c'è: c'è l'espressione incontrollata di un malanimo, di una mancanza di comprensione che sfiora l'antisemitismo, lo incontra, lo ingloba, lo promuove... Sì, anche nel giorno della memoria.

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